Passione di Nostro Signore Gesù Cristo secondo Giovanni (Gv 18,1-19-42) (leggi il testo completo)

Nel meditare la passione e la morte di Gesù oggi, in un mondo fatto di tante idee, culture, religioni, dove – come ben sappiamo – purtroppo non mancano anche opposizioni, conflitti e ingiustizie, risuona fortemente nel nostro cuore la parola dell’Apostolo Paolo rivolta ai cristiani di Corinto, una comunità segnata da tante divisioni: “mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano la sapienza, noi invece annunciamo Cristo Crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,22-24). È questo l’annuncio che la Chiesa rinnova in questo Venerdì Santo, come da 2000 anni e al quale partecipiamo anche noi, non come spettatori di una rievocazione, ma come persone chiamate a prendere parte ad un’azione, in cui riscoprire il nostro ruolo. Ci aiuta molto, in questa liturgia del Venerdì Santo, la prima lettura proposta (Is 52,13-53,12), in cui è la comunità a parlare. È certamente la figura misteriosa del servo di Yahwé a soffrire in prima persona, ma la voce della comunità si ode forte, specialmente in quell’annuncio pieno di luce e di speranza: “per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,5). Questo nel piano umano sarebbe incomprensibile: come può un uomo solo soffrendo guarire tutti noi? Evidentemente la sua sofferenza non è come tutte le altre, per questo questa parola profetica trova il suo compimento nella morte di Gesù: la sua morte, reale, concreta, in cui la natura umana è stata annientata sul legno della Croce, è divenuta causa di salvezza perché abitata dalla sua divinità. Egli ha portato con sé ad una morte ignominiosa la nostra umanità ferita dal peccato e l’ha guarita con la sua divinità! Questo passaggio dal piano umano a quello divino è un elemento tipico anche del racconto della Passione secondo San Giovanni, propostoci nella liturgia di oggi. La teologia del IV evangelista tiene sempre ben chiaro in sé questo aspetto: la Croce è il punto focale di tutta la storia e di tutta la rivelazione. Gesù viene dipinto da Giovanni come protagonista del suo dramma, Egli non si lascia dominare dagli eventi, ma ne è il regista, vi si approccia sempre con maestà, solennità e gloria. Sin dall’arresto, con le guardie gettate a terra dal solo pronunciare quell’Io Sono della sua identità, fino al dialogo con Pilato, improntato sul regno e sulla verità, per giungere poi alla scena finale della Croce, dove parla solo al momento opportuno per chiedere da bere, “Ho sete” (Gv 19,28), andando ben oltre una sete semplicemente materiale, ma manifestando la sete del nostro sì al suo amore sconfinato, l’adesione dei desideri più profondi del nostro cuore a Lui. Infine, con la stessa maestà e regalità, dalla Croce Gesù annuncia il compimento della sua missione: “è compiuto!” (Gv 19,30). È il compimento dell’ora, dell’opera salvifica di Gesù: attraverso la sua morte in croce il disegno di Dio e le promesse della Scrittura giungono alla loro piena realizzazione. Sulla croce Gesù ha veramente portato a compimento la sua missione, quella di amare senza riserve, fino alla fine, fino all’estrema possibilità. La sua maestà e padronanza degli eventi si coglie fino all’estremo respiro: il suo sacrificio e la sua offerta sono un atto di obbedienza al Padre. Egli, consapevolmente, china il capo a Lui. Logicamente questo gesto dovrebbe essere conseguenza dello spirare di Gesù, in realtà l’evangelista indica chiaramente che prima Gesù china il capo e poi muore. Il suo chinare il capo, quindi, è un gesto voluto e consapevole, segno dell’estremo atto di obbedienza e sottomissione alla volontà del Padre. La sua, fino alla fine, non è un’offerta subita, ma scelta e voluta da protagonista. Pensiamo allora anche noi alle nostre offerte e ai sacrifici che eleviamo al Padre in unione a quello unico e perfetto di Gesù: sono atti voluti, consapevoli e scelti per amore e con amore, o piuttosto sono realtà subite perché inevitabili? Spesso, per indicare qualcosa che si subisce senza volerlo, si dice di doverlo fare “ob torto collo”. Gesù, modello e fonte di ogni vera offerta, il suo collo lo ha chinato non subendo a malincuore una volontà considerata esterna e ostile, ma scegliendo di donare la sua vita liberamente, nella piena adesione al disegno del Padre. In questo modo dunque “consegnò lo spirito”. Lo fece, anche questo, in modo consapevole e libero. La morte di Gesù è l’atto di consegna del Figlio, rifiutato dall’umanità, ma proprio per questo amore senza misura, essa realizza il più importante dono per l’umanità, l’effusione dello Spirito. Viene mirabilmente ripristinata la comunione e la comunicazione fra il cielo e la terra: lo Spirito di Dio, attraverso il sacrificio e l’estremo atto di donazione di Gesù, viene effuso abbondantemente sull’umanità e su tutti noi sempre di nuovo.
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