Solennità della Santissima Trinità/A: Un oceano di luce

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 3, 16-18)

In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».

Commento

Nel calendario liturgico, la prima domenica che cade nel tempo ordinario dopo Pentecoste, è dedicata alla solennità della Santissima Trinità. Dopo aver celebrato la Pasqua di morte e resurrezione del Figlio, asceso al cielo, con l’effusione dello Spirito Santo sulla Chiesa, oggi siamo invitati ad elevare il nostro sguardo contemplativo nel mistero stesso di Dio. Gesù, venuto in mezzo a noi, ha rivelato pienamente l’identità di questo Dio uno, in tre persone uguali e distinte, che sono comunione perfetta. Si tratta di un mistero che supera infinitamente la capacità umana di razionalizzare e di comprendere, quello di un’unica sostanza divina, che esiste in tre persone, il Padre, il Figlio e lo Spirito. Facendo eco alle parole del prologo del Vangelo di san Giovanni, noi sappiamo bene che “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Ed, infatti ,è proprio la rivelazione piena di Gesù, il Figlio venuto nel mondo, la chiave che permette all’uomo di entrare con fede in questo oceano di luce. Attraverso la porta della fede, non si ha la comprensione piena del mistero, ma ci si può invece immergere in esso, sperimentandone la presenza e soprattutto l’azione efficace nell’amore per noi. Nella pagina evangelica proposta per la solennità odierna, tratta dal bellissimo dialogo tra Gesù e Nicodemo, questo sincero cercatore di Dio, che occupa il capitolo terzo del Vangelo di Giovanni, emerge con chiarezza il senso della rivelazione di Gesù. Dio è amore sovrabbondante, che non può e non vuole rimanere chiuso in se stesso, ma come un Padre senza riserve nei confronti dell’umanità si dona in modo così estremo da aver sacrificato per essa suo Figlio. Chi si immerge nell’oceano divino con fede sincera, non solo può conoscere quest’amore, ma addirittura condivide la stessa compagnia dell’Amante, l’Amato e l’Amore, ossia quella eternità senza tramonto, che consiste nel godere della sua presenza per sempre e che si chiama vita eterna. In questo si compie la vera realizzazione dell’uomo, creato per lodare, amare e servire Dio per sempre. La Trinità, dunque, è la fonte da cui proveniamo, essendo stati creati dal nulla per un impeto d’amore sovrabbondante, perché – ci fa bene ricordarlo qualche volta! – Dio non doveva creare il mondo e l’uomo necessariamente, essendo già pienamente realizzato in se stesso. Ed è anche la mèta finale a cui aspiriamo, essendo esseri che anelano alla pienezza della vita e della felicità, che Cristo è venuto a rivelarci e che sappiamo coincidere con l’abbraccio amorevole del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo che ci attirano e ci attendono, per riempirci della loro presenza luminosa per l’eternità.

Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)

La fede ci fa innanzitutto ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per il perdono dei peccati nel nome di Dio Padre, nel nome di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne, morto e risorto, e nello Spirito santo di Dio; ci ricorda ancora che il battesimo è il sigillo della vita eterna e la nuova nascita in Dio, di modo che d’ora in avanti non siamo più figli di uomini mortali ma figli del Dio eterno; ci ricorda ancora che Dio che è da sempre, è al di sopra di tutte le cose venute all’esistenza, che tutto è a lui sottomesso e che tutto ciò che è a lui sottomesso da lui è stato creato. Dio perciò esercita la sua autorità non su ciò che appartiene a un altro, ma su ciò che è suo e tutto è suo, perché Dio è onnipotente e tutto proviene da lui […] C’è un solo Dio, Padre, increato, invisibile, creatore di tutte le cose, al di sopra del quale non c’è altro Dio come non esiste dopo di lui. Dio possiede il Verbo e tramite il suo Verbo ha fatto tutte le cose. Dio è ugualmente Spirito ed è per questo che ha ordinato tutte le cose attraverso il suo Spirito. Come dice il profeta: «Con la parola del Signore sono stati stabiliti i cieli e per opera dello Spirito tutta la loro potenza» [Sal 32 (33) ,6]. Ora, poiché il Verbo stabilisce, cioè crea e consolida tutto ciò che esiste, mentre lo Spirito ordina e da forma alle diverse potenze, giustamente e correttamente il Figlio è chiamato Verbo e lo Spirito Sapienza di Dio. A ragione dunque anche l’apostolo Paolo dice: «Un solo Dio, Padre, che è al di sopra di tutto, con tutto e in tutti noi» (Ef 4,6). Perciò sopra tutte le cose è il Padre, ma con tutte è il Verbo, perché attraverso di lui il Padre ha creato l’universo; e in tutti noi è lo Spirito che grida «Abba, Padre» (Gal 4,6) e ha plasmato l’uomo a somiglianza di Dio (IRENEO, Dimostrazione della fede apostolica 3-5, SC 406, pp. 88-90).

Preghiera

Aiutami a dimenticarmi interamente, per stabilirmi in te, immobile e tranquilla come se l’anima mia già fosse nell’eternità. Nulla possa turbare la mia pace ne farmi uscire da te, o mio Immutabile; ma ogni istante mi immerga sempre più nelle profondità del tuo mistero! Pacifica l’anima mia; fanne il tuo cielo, la tua dimora prediletta e luogo del tuo riposo. Che, qui, io non ti lasci mai solo; ma tutta io vi sia, ben desta nella mia fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata alla tua azione creatrice.
O amato mio Cristo, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti… fino a morirne! […]. Ma sento tutta la mia impotenza; e ti prego di rivestirmi di te, di immedesimare la mia anima a tutti i movimenti dell’anima tua, di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che una irradiazione della tua Vita vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la mia vita ad ascoltarti, voglio rendermi docilissima a ogni tuo insegnamento, per imparare tutto da te; e poi, nelle notti dello spirito, nel vuoto, nell’impotenza, voglio fissarti sempre e starmene sotto il tuo grande splendore. O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione.
O Fuoco consumatore, Spirito d’amore, discendi in me, perché faccia dell’anima mia quasi una incarnazione del Verbo! Che io gli sia prolungamento di umanità in cui egli possa rinnovare tutto il suo mistero. E tu, o Padre, chinati verso la tua povera, piccola creatura, coprila della tua ombra, non vedere in essa che il Diletto nel quale hai posto le tue compiacenze.
O miei ‘Tre’, mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra Luce l’abisso delle vostre grandezze
(Elisabetta della Trinità, Scritti spirituali di Elisabetta della Trinità, Brescia 1961, 73s.).

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Si racconta che un giorno S. Agostino, grandissimo sapiente della Chiesa era molto rammaricato per non essere riuscito a capire gran che del mistero della Trinità. Mentre pensava a queste cose e camminava lungo la spiaggia vide un bambino che faceva una cosa molto strana aveva scavato una buca nella sabbia e con un cucchiaino andava al mare prendeva l’acqua e la versava nel fosso. E così di seguito. E il santo si avvicina con molta delicatezza e gli chiede: Che cos’è che stai facendo? E il ragazzo Voglio mettere tutta l’acqua del mare in questo fosso S. Agostino sentendo ciò rispose: Ammiro il desiderio che hai di raccogliere tutto il mare. Ma come puoi pensare di riuscirci Il mare è immenso e il fosso è piccolo. E poi con questo cucchiaino non basta la tua vita. E il ragazzo che era un angelo mandato da Dio gli rispose: E tu come puoi pretendere di contenere nella tua testolina l’infinito mistero di Dio? Agostino capì che Dio è un grande mistero. E capì che il Padre il Figlio e lo Spirito Santo erano così pieni di amore che insieme dovevano divertirsi proprio un mondo.

Solennità di Pentecoste/A: Lo Spirito della missione e del perdono

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,19-23)

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

Commento

La solennità di Pentecoste (dal greco pentecostés = cinquantesimo) cade nel cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, come compimento del ciclo delle manifestazioni del Risorto ai discepoli e dopo la sua ascensione gloriosa al cielo. Essa rappresenta la realizzazione della promessa di Gesù ai suoi, nel discorso di addio, in cui Egli disse che avrebbe inviato l’altro Paraclito, lo Spirito, il primo Dono fatto ai credenti. Gesù è il primo Paraclito, l’Advocatus dell’umanità presso il Padre. Compiuta la sua missione terrena con il passaggio pasquale di morte e resurrezione, insieme al Padre, Egli invia l’altro Avvocato, il suo Spirito, che è Signore e dà la vita, per rinnovare ogni cosa in Lui e toccare con la sua potenza ogni creatura. In questo anno liturgico, nella solennità odierna, la Chiesa ripropone un breve passo dell’apparizione del risorto agli Undici la sera di Pasqua, quando impauriti se ne stavano rintanati nel cenacolo. Proprio a loro, come primizia della Chiesa, con il suo soffio divino, Egli fa dono dello Spirito, nel momento in cui li invia in suo nome ad annunciare la salvezza. Come Maria, nell’annuncio dell’Angelo viene adombrata dalla potenza dello Spirito per generare il Figlio di Dio nella carne, così gli Apostoli – colonne della Chiesa – ricevono lo stesso Spirito per generare Cristo nel cuore degli uomini di ogni epoca, lingua, razza e nazione. Come Maria, ricolma di Spirito, va in fretta verso la casa di Elisabetta per servirla, così la Chiesa, ricolma del fuoco dello Spirito, si diffonde fino agli estremi confini della Terra, per annunciare il Vangelo senza riserve, con la forza che viene dall’alto. Lo stesso Spirito, che nella creazione aleggiava sulle acque, dopo la risurrezione di Cristo, aleggia sulla Chiesa sua sposa, perché compia l’opera della ri-creazione attraverso il ministero del perdono e della riconciliazione. Questa azione misteriosa, ma reale dello Spirito, si realizza in ogni credente, quando è mosso alla missione e fa esperienza della vita nuova, venendo liberato dal peccato, per vivere da figli. Oggi, dunque, in questa solennità di Pentecoste, mentre invochiamo con fede lo Spirito nella nostra vita, dovremmo chiederci: sento che la mia vita ha una missione, o meglio è una missione? Qual è la missione che lo Spirito suscita in me in questo mondo? Faccio esperienza, anche nelle mie fragilità e nel mio peccato, della novità del perdono e della grazia che giungono nella mia vita attraverso lo Spirito dell’amore? Se non sentiamo questa spinta missionaria in noi e non facciamo esperienza vera di rinnovamento del cuore, dovremmo invocare più fortemente lo Spirito nella nostra vita, perché davvero ci trasformi e ci metta nuovamente in quella relazione viva con Gesù, che invia e perdona.

Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)

La Chiesa ha bisogno della sua perenne pentecoste. Ha bisogno di fuoco nel cuore, di parole sulle labbra, di profezia nello sguardo. La Chiesa ha bisogno d’essere tempio dello Spirito Santo, di totale purezza, di vita interiore. La Chiesa ha bisogno di risentire salire dal profondo della sua intimità personale, quasi un pianto, una poesia, una preghiera, un inno, la voce orante cioè dello Spirito Santo, che a noi si sostituisce e prega in noi e per noi «con gemiti ineffabili», e che interpreta il discorso che noi da soli non sapremmo rivolgere a Dio. La Chiesa ha bisogno di riacquistare la sete, il gusto, la certezza della sua verità e di ascoltare con inviolabile silenzio e con docile disponibilità la voce, il colloquio parlante nell’assorbimento contemplativo dello Spirito, il quale insegna «ogni verità». E poi ha bisogno la Chiesa di sentir rifluire per tutte le sue umane facoltà, l’onda dell’amore che si chiama carità e che è diffusa nei nostri cuori proprio «dallo Spirito Santo che ci è stato dato». Tutta penetrata di fede, la Chiesa ha bisogno di sperimentare l’urgenza, l’ardore, lo zelo di questa carità; ha bisogno di testimonianza, di apostolato. Avete ascoltato, voi uomini vivi, voi giovani, voi anime consacrate, voi fratelli nel sacerdozio? Di questo ha bisogno la Chiesa. Ha bisogno dello Spirito Santo in noi, in ciascuno di noi, e in noi tutti insieme, in noi Chiesa. Sì, è dello Spirito Santo che, soprattutto oggi, ha bisogno la Chiesa. Dite dunque e sempre tutti a lui: «Vieni!» (PAOLO VI, Discorso del 29 novembre 1972).

Preghiera

Vieni, o Spirito del cielo,
manda un raggio di tua luce,
manda il fuoco creatore.

Misterioso cuor del mondo,
o bellezza salvatrice,
vieni dono della vita.

Tu sei il vento sugli abissi,
tu il respiro al primo Adamo,
ornamento a tutto il cielo.

Vieni, luce della luce,
delle cose tu rivela
la segreta loro essenza.

Concezione germinale
della terra e di ogni uomo,
gloria intatta della Vergine…

O tu Dio in Dio amore,
tu la luce del mistero,
tu la vita di ogni vita.

(David Maria Turoldo)

Solennità dell’Ascensione del Signore/A: una presenza nuova

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 28,16-20)

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Commento

Nella solennità dell’Ascensione del Signore la Chiesa celebra la conclusione della fase di presenza fisica e visibile del Cristo incarnato, morto e risorto sulle strade del mondo, contemplando il suo ingresso definitivo nei cieli, dove glorificato siede alla destra del Padre. Attraverso questa pagina della Scrittura, che si colloca a conclusione del Vangelo di Matteo, siamo invitati a riflettere sul modo nuovo in cui ora il Signore Gesù è presente con noi e per noi, fino alla fine dei tempi. Il Risorto conduce i suoi nel luogo preciso da Lui stabilito, sul monte, dove Egli si lascia incontrare. Chi accoglie le indicazioni del Signore ed è fedele alla sua Parola può vederlo e adorarlo, proprio come i discepoli. Bisogna salire sempre di nuovo su quel monte, ossia percorrere la strada in salita della fede. I suoi lo vedono, ma proprio in questo momento così solenne emerge anche fortemente la dimensione del dubbio. L’esperienza della fede non è esente da vacillamenti. Neppure il fatto di vederlo fisicamente li, risorto e glorioso, esime dal dubbio. Per questo nella sua Provvidenza, Gesù ha deciso di nascondere il suo volto glorioso, mentre camminiamo sulle strade della terra, per poi svelarsi a noi nell’altra vita e dare a noi la possibilità di accogliere consapevolmente e senza condizionamenti la sua proposta d’amore. Con la risurrezione, Egli ha ormai superato le barriere dello spazio e del tempo ed ha un potere universale ed eterno. Egli, il sommo sacerdote della nuova Alleanza, apre una strada nuova. Egli, come Capo, vuole essere presente in modo rinnovato tra le membra del suo Corpo, la Chiesa, mediante il dono della sua grazia, la vita divina riversata sull’umanità dall’alto attraverso i sacramenti. Chi si fa battezzare nel nome della Trinità, riceve la sua inabitazione come dono gratuito e viene istruito dalla Chiesa nelle vie di Dio, così che possa conoscere Cristo risorto, amarlo e seguirlo. Questa presenza nuova e più intima di Gesù, può essere riconosciuta attraverso gli occhi della fede e dischiude anche per ciascuno di noi la strada del cielo, perché dove è Lui nella gloria, nell’abbraccio del Padre, potremo essere un giorno anche noi. Egli infatti, attraversando i cieli, è andato a prepararci un posto, che sarà la nostra dimora per l’eternità. Tuttavia, non possiamo pensare di arrivarci senza percorrere la strada ardua della fede in Lui, aperta in noi con il battesimo ed alimentata dall’annuncio della Parola, che risuona nella predicazione degli Apostoli fino alla fine dei tempi. Soltanto rinnovando ogni giorno il nostro discepolato e condividendo questa bella esperienza con gli altri, potremo raggiungere la meta celeste e diventare anche per gli altri strumenti di questo incontro con Lui.

V domenica di Pasqua/A: L’eterno destino dell’uomo

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 14,1-12)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: Vado a prepararvi un posto? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».

Commento

Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Queste domande esistenziali, seppure in maniera blanda e sommessa, fanno spesso eco nel cuore degli uomini. Immersi nelle pieghe dell’esistenza quotidiana, segnata da gioie, ma anche da difficoltà, contraddizioni e sfide, ci interroghiamo spesso sul senso del nostro futuro, specialmente a causa dell’esperienza della morte. La cultura corrente tende ad esorcizzare questi pensieri, annebbiando la mente umana con distrazioni e surrogati inconcludenti, ma quella domanda continua a pesare, tanto che – se non debitamente accolta e affrontata – si traduce in un’esperienza esponenziale di ansia e turbamento. La pagina evangelica di oggi, tratta dal capitolo XIV di Giovanni, parte proprio da una rassicurazione di Gesù rispetto a questo turbamento del cuore. Egli ci invita ad avere fede, ossia ad esprimere totale fiducia e abbandono in Lui: il nostro destino non è tenebroso, ma Egli prepara un posto per noi. La fede cristiana, come relazione intima e vivente con Dio Padre e con il Figlio, non è semplicemente una fuga dalla realtà, una dimensione narcotizzante o alienante dalla tribolazione quotidiana, ma come atto di resa consapevole, libera e incondizionata ad un Altro, offre all’uomo una possibilità per risollevarsi dal peso della solitudine e dell’oppressione. Avendo fede, cioè affidandosi a Dio, l’uomo sente che c’è una Persona che lo ama, si prende cura di lui e non gli offre illusioni. La fede cristiana, infatti, si fonda su una promessa concreta, quella di una mèta, di un “posto”, di una “nuova terra promessa”, di quello spazio sacro che il Signore vuole condividere con noi nella casa del Padre per tutta l’eternità. Gesù con la sua morte e risurrezione ci ha aperto questi nuovi orizzonti, svelandoci il suo progetto, quello di tenerci con Lui per sempre. Lui stesso è il Fine della nostra esistenza terrena, orientata alla beatitudine, ossia a quel godimento totale della sua presenza e del suo amore. Qual è, dunque, la modalità per raggiungere questo compimento della vocazione umana e cristiana? É la parafrasi della domanda di Tommaso, che spesso diventa anche la nostra domanda: come si fa a raggiungere questo? Colui che è la Mèta, dunque, sorprendentemente ci dice di essere anche la Via, ossia il mezzo per raggiungerla. Non una via come tutte le altre, ma la Via Vera, quella che ci porta dritti alla Verità, ossia alla rivelazione totale del volto di Dio. Chi vede Gesù, infatti, vede il Padre, perché Lui e il Padre sono una cosa sola. Questa Verità di Dio non accetta alcun compromesso con la falsità, la menzogna, l’ipocrisia e la finzione, ma è solo trasparenza e luce, in cui l’uomo – creato a sua immagine e somiglianza (cfr. Gen 1,26) – può cogliere i tratti originali del progetto originale e della sua figura perfetta. Il tratto caratteristico di questa rivelazione della nostra vera “terra promessa”, però, è quello di essere Vita che non conosce termine. La parola greca è zoè, che non indica semplicemente una “vita biologica” (in greco bios), ma si riferisce alla vita divina, quella che Cristo con la sua Pasqua dona a chi crede in Lui, rendendolo partecipe nello Spirito della sua stessa natura divina. Tenendo nel cuore e nella mente i lineamenti di questo progetto grandioso che Gesù ci offre, certamente potremo vincere la paura e il turbamento, sapendo che in questo pellegrinaggio non siamo mai soli.

IV domenica di Pasqua/A: Conoscere e appartenere

Dal vangelo secondo Giovanni (Gv 1,1-10)

In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

Commento

La quarta domenica di Pasqua, Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, propone alla nostra contemplazione alcune figure legate al Cristo buon Pastore, attingendo dalla ricca pagina del capitolo X del Vangelo di Giovanni. Un elemento tipico di questa pagina evangelica è il sovrapporsi di diverse immagini, che si riferiscono a Cristo. Tutte queste, che si applicano a Lui, dicono l’inesauribilità della sua identità e del suo mistero. Ogni aspetto richiama parte del suo essere e della sua missione e la pienezza di Cristo si rivela solo mantenendo insieme le diverse immagini. Gesù, in altre parole, è sempre più grande di quanto possiamo comprendere con la nostra mente umana limitata. In questo complesso intrecciarsi di fili, ci viene presentato il tema dell’ingresso nel recinto delle pecore, immagine della protezione, dell’appartenenza e dell’amore. Chi non percorre la via giusta, ma cerca altre strategie e percorsi contorti per entrare in questa zona sicura, è un ladro e un brigante. Non si può entrare nello spazio protetto del gregge di Cristo, della sua amicizia con Lui, se non attraverso di Lui, che è la porta. Cristo ha camminato la via tracciata dal Padre e questo l’ha reso pastore. Chi cerca le scorciatoie, apre varchi artificiali, programma vie differenti da quelle pensate da Lui, è un ladro e un brigante, è un manipolatore. È chiara in queste parole di Gesù la polemica con i farisei. A conclusione del capitolo IX, dopo la guarigione del cieco nato, Gesù ha fatto riferimento alla loro cecità colpevole, per la quale rifiutano i segni di Dio in Lui. Nel passaggio odierno, il Maestro li chiama “ladri e briganti”, proprio perché essi si ostinano a seguire i loro pregiudizi e schemi, senza percorrere la via di Dio. Questo genera dispersione, distruzione e morte. Il cancello dell’ovile, invece, ossia il percorso pensato da Dio Padre, attraverso il quale il Figlio entra, diviene la garanzia dell’identità del vero pastore. Cristo è tale perché è passato attraverso la porta della Pasqua, dalla morte alla vita. Avendo donato il suo amore senza riserve, le pecore ascoltano la sua voce, perché sono preziose ai suoi occhi, Egli le chiama per nome, le conosce personalmente, come anch’esse conoscono Lui. La categoria centrale di questa relazione con Gesù, dunque, è la conoscenza e l’appartenenza. I falsi pastori, che sono venuti prima di Gesù, hanno manipolato e usato il gregge, ma in fin dei conti, le anime non li hanno ascoltati. Chi accoglie Cristo, invece, che è il mediatore tra Dio e gli uomini, la vera porta della salvezza, essendo Lui stesso la vera Pasqua, entra nella relazione con Dio, esce dalle paludi mondane e riceve il nutrimento della vita in abbondanza.

III domenica di Pasqua/A: Dalla conoscenza all’incontro

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 24,13-35)

Ed ecco, in quello stesso giorno [il primo della settimana] due dei [discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

Commento

La liturgia della terza domenica di Pasqua ci propone il celebre racconto dell’incontro dei discepoli con il Cristo risorto ad Emmaus, un villaggio poco distante da Gerulasemme. L’incontro avviene dopo gli eventi della Pasqua mentre i discepoli sono in cammino e discutono dei fatti di Gesù. Nonostante ciò, quando Lui in persona si fa presente, essi non sono in grado di riconoscerlo. Sanno tutto di Lui, hanno conoscenza dei fatti, ma in realtà non l’hanno incontrato. Il dettaglio sull’identità dei discepoli, di cui solo uno viene chiamato per nome, Cleopa, mentre l’altro rimane senza nome, è segno che noi stessi possiamo essere nell’esperienza di questo discepolo innominato. Ciò accade soprattutto quando nel cammino della vita, pur essendo pieni di nozioni su Gesù, non abbiamo mai veramente sperimentato la sua presenza e la sua amicizia. Molto spesso anche la nostra fede è più un “essere informati sui fatti”, che un vero rapporto esistenziale con il Maestro. Gesù cammina sempre accanto a noi, ma la semplice conoscenza delle “cose di Dio”, non è garanzia di consapevolezza che Lui è presente. I nostri occhi, come quelli dei discepoli, potrebbero essere impediti dal riconoscere il passaggio di Gesù, quando siamo troppo immersi nelle cose della terra e non lasciamo spazio allo Spirito.L’incapacità di riconoscerlo è collegata allo scandalo del mistero del Dio crocifisso. Non è per niente facile, né immediato riconoscere Dio presente nel vero roveto ardente della croce. Ma è soltanto lì che si trova il seme fecondo della risurrezione. La catechesi biblica che Gesù propone ai discepoli va tutta in quella direzione: riconoscere che Egli è la chiave della Scrittura e della vita e che solo in Lui, crocifisso e risorto, si apre una finestra di luce su tutti i drammi dell’uomo e del mondo. Quei cuori, ormai illuminati e scaldati dalla verità, vengono nutriti dalla sua presenza attraverso il pane consacrato. Il mistero entra nella vita e la trasforma. È li che i discepoli finalmente lo incontrano. Questa stessa esperienza, in cui si passa da una conoscenza di nozioni e di fatti su un Dio lontano, all’incontro vivo con una persona viva e vera è il più bel dono della fede. In ogni Santa Messa, Gesù – come per i discepoli di Emmaus – si fa compagno di viaggio, ci apre il senso delle scritture e spezza il pane per noi. Possiamo dire che avviene anche in noi questo passaggio dalla conoscenza all’incontro? Abbiamo mai sperimentato in noi la trasformazione del senso della tristezza e del vuoto nell’esperienza di un cuore infiammato dal suo dono d’amore?

II domenica di Pasqua e della Divina Misericordia/A: “Mio Signore e mio Dio”

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,19-31)

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Commento

La domenica dell’Ottava di Pasqua, totalmente splendente di luce pasquale, nella gloria della Resurrezione del Signore, attraverso il brano del Vangelo di Giovanni, ci riporta spiritualmente nel cenacolo, dove Gesù si manifesta ai suoi discepoli riuniti. Essi sono impauriti, se ne stanno rinchiusi nel cenacolo, dopo i fatti della passione e della morte, sono paralizzati dalla paura. Hanno già ricevuto l’annuncio delle donne, ma hanno bisogno ancora di essere confermati nella fede. È Gesù, che,  manifestandosi, torna a dare pace e vita ai suoi, inviandoli in missione. Soltanto l’incontro con il Vivente, che mostra le sue mani e il suo fianco con i segni della sua passione impressi nel suo corpo glorificato, conferma ai suoi che la morte non ha avuto e non avrà mai più la meglio, ma è sempre la vita che trionfa. L’incontro con il Risorto trasforma la paura in gioia. Da questo incontro scaturisce la missione: nella forza dello Spirito, “che è Signore e dà la vita”, i testimoni sono inviati a far fiorire la Pasqua nel cuore degli uomini, specialmente attraverso il miracolo del perdono. Come nel corpo glorificato di Gesù, i segni del suo amore restano per sempre, così la sua Parola sulla Chiesa rimane irrevocabile: quando i suoi rimetteranno i peccati, questi saranno rimessi; quando non lo faranno, i peccati rimarranno sui cuori. Sulla verità di questa parola di Gesù, si gioca l’esperienza della vita nuova, la vita dei risorti, che si realizza nelle anime. Attraverso il miracolo della Misericordia e del perdono, l’evento della risurrezione continua ad avere effetto nelle nostre vite. Il primo destinatario della missione degli Apostoli è uno di loro, Tommaso, Didimo (dal greco “didimos”, gemello), il gemello di ciascuno di noi, che – non essendo presente all’incontro dei suoi fratelli con il Risorto – riceve la testimonianza della risurrezione. Tommaso dubita, ha bisogno di altro, non gli basta la testimonianza che tramanda l’evento, vuole toccare e fare esperienza delle piaghe del Risorto in maniera diretta. Ha visto morire Cristo, per accettare che sia vivo, vuole vederlo. Dopo una settimana il Vivente gli si manifesta. Alla sua presenza, non ha bisogno di altro: esprime la più bella professione di fede del Nuovo Testamento, dice che Gesù è il suo Signore (Kyrios, traduzione di Elohim) e il suo Dio (Theos, traduzione di Adonai). Usa le due espressioni del nome di Dio dell’Antico Testamento, i nomi della rivelazione di Dio, applicati a Gesù. Il Risorto e il Vivente è il vero Dio creatore e Signore del tempo e della storia e, con quel pronome “mio”, conferma tutta la sua adesione di fede personale a questa verità. L’esperienza di Tommaso è l’esperienza di ciascuno di noi, quando nella notte del dubbio veniamo toccati dall’incontro con Cristo. Il percorso della fede di ciascuno di noi è fatto di ricerca, di momenti di crescita, ma anche di oscurità. Quando però ci lasciamo coinvolgere dalla sua Presenza, la nostra fede matura e cresce e siamo destinatari di quella beatitudine espressa da Gesù: sono beati coloro che pur non avendo visto con gli occhi fisici, credono nel cuore che Egli è risorto e vivente e da questa fede ricevono la vita.

Pasqua di Resurrezione 2023: Il vortice della fede

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,1-9)

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

Commento

I racconti della resurrezione, sia nella versione giovannea, come anche nei sinottici, hanno tutti un elemento in comune: non rivelano i dettagli dell’evento, come per esempio accade con la passione, ma soltanto gli effetti e i segni dello stesso. La resurrezione di Cristo è l’evento centrale della nostra fede, la regione e il fondamento del nostro essere cristiani, la prova provata che Dio sia venuto in mezzo a noi per salvarci ad aprirci le porte dell’eternità, è il miracolo dei miracoli, la prova della sua divinità. Come sia accaduto, non lo sappiamo. È un mistero: non nel senso di qualcosa di oscuro e nascosto, ma nel senso dell’etimologia della parola mistero (dal greco myo, chiudere la bocca), qualcosa di così grandioso, da stupire, da farci chiudere la bocca. Più che qualcosa di oscuro, dunque, la risurrezione è luce abbagliante, che supera la capacità dei nostri occhi. Questo evento esplosivo causa una reazione a catena, in un movimento che da quella mattina non si è più fermato. Un movimento che è arrivato fino a noi, nella testimonianza della fede e che – come discepoli di Cristo – ci auguriamo di non fermare, ma di poter a nostra volta consegnare a chi verrà dopo di noi. La fede nella risurrezione noi l’abbiamo ricevuta e  è nostro compito riconsegnarla a chi verrà dopo di noi. È un grande dono, ma anche una grande responsabilità! Siamo chiamati ad essere “uomini pasquali”, a vivere un’esistenza da risorti. Tornando al brano evangelico, la prima testimone, Maria di Magdala, vedendo con gli occhi la pietra divelta inizia la corsa verso i discepoli. Ricevendo l’annuncio, anch’essi ne sono contagiati e corrono a loro volta. In questo vortice, come da sempre nella storia, c’è chi corre più rapidamente e chi corre più lentamente, ma il punto di arrivo rimane lo stesso: l’incontro con il mistero di Cristo. Il discepolo amato coglie il segno dei teli riposti, ma attende. Quando arriva Pietro, anch’egli vide i teli, ma nota anche il particolare del sudario posto in un luogo a parte. Ciascuno ha la propria originalità nel cogliere un aspetto del mistero: questa è la bellezza della fede. Esistono tante esperienze di fede, quanti sono gli uomini. Eppure tutte hanno il punto comune, che è l’amicizia con la persona vivente e vera di Cristo. Ci si può arrivare per vie differenti, con tempi ed esperienze differenti, ma attorno a Lui, tutti i credenti formano un solo corpo, la sua Chiesa. Quando con la potenza dello Spirito, come il discepolo amato, siamo in grado di superare la semplice visione materiale per entrare nella comprensione spirituale, si apre anche per noi la porta della fede. Accogliendo la testimonianza di Maria di Magdala e degli Apostoli, che ci è stata consegnata nella Scrittura, in questa Pasqua, siamo invitati a rinnovare la nostra professione di fede nel Vivente. Quello che era il crocifisso, schiacciato dal peccato del mondo, è risorto vittorioso e non muore più. Chi crede in Lui non muore, ma passa dalla morte alla vita. Lo crediamo davvero? Sappiamo che è la verità della nostra esistenza?

Venerdi’ Santo 2023: “Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto”

PASSIONE DI NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO SECONDO GIOVANNI (Gv 18,1 – 19,42) (leggi il testo qui)

Commento

La liturgia del Venerdì Santo, che non è una Celebrazione eucaristica, ha delle caratteristiche del tutto peculiari. Essa si compone di un primo momento, caratterizzato dall’ascolto della Parola di Dio e dalla grande Preghiera universale. Segue il secondo momento, quello dell’adorazione della Santa Croce, per concludersi con la santa Comunione distribuita al popolo. Cuore della Liturgia della Parola è la proclamazione della Passione nella versione dell’Evangelista Giovanni. Si tratta di un testo ricco, profondo, si potrebbe dire, inesauribile. Di fronte al ricco racconto, viene in mente un’espressione di Sant’Efrem Siro che così si esprime: “Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? È molto più ciò che ci sfugge di quanto riusciamo a comprendere” (Dai «Commenti sul Diatessaron» di sant’Efrem, diacono, 1, 18-19; SC 121, 52-53). Quando ci avviciniamo alla narrazione della Passione secondo San Giovanni, ci rendiamo perfettamente conto che è cosi. Più che comprendere, siamo invitati a contemplare. Giovanni stesso, a chiusura della scena che descrive la morte del Figlio di Dio, citando un passo del profeta Zaccaria (Zc 12,10b), così si esprime: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (19,37). In questo Venerdì Santo siamo invitati a fare ciò, rivolgere il nostro sguardo a Lui, a Lui che noi stessi abbiamo trafitto a causa dei nostri peccati, delle nostre superficialità ed ingratitudini. In questa nostra epoca, la cultura in cui siamo immersi, il secolarismo, la tecnocrazia e la nuova religione dell’effimero e delle apparenze, tendono a distrarci, a fare in modo che il nostro sguardo si orienti verso altro. Questi surrogati, per quanto attraenti possano sembrare inizialmente, lasciano il cuore vuoto, perché non sono in grado di dare risposte di senso ai drammi dell’uomo. Solo Cristo, il Crocifisso-Risorto, l’Agnello immolato, è la risposta a tutte le domande più profonde dell’uomo, specialmente quelle sul dolore, sulla sofferenza, sull’abbandono e sulla morte. Nel Venerdì Santo non si incontrano le risposte a tutte queste domande, in maniera intellettuale e speculativa, ma è guardando a Cristo sulla croce, che noi vediamo e crediamo che Dio ha preso così seriamente queste sfide, da farsi nostro compagno di strada, in tutto, non offrendoci formule magiche per sfuggire dalla realtà, ma assumendo tutto questo su di sé, per dirci che con noi anche Lui è passato nel tunnel oscuro della sofferenza e della morte, per aprire un percorso nuovo e luminoso in esse. La Chiesa, famiglia di Gesù generata dal suo sangue sulla croce, non cessa di contemplare il suo Sposo, che per amore ha dato la sua vita per lei, e il tesoro della Chiesa è l’annuncio al mondo, che, come dice San Paolo, “[La parola della croce] è stoltezza per quelli cha vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio” (1Cor 1,18). Nulla c’è di peggiore della superficialità e dell’ingratitudine di chi, avendo ricevuto molto bene, non lo riconosce o peggio lo disprezza. La Chiesa, ogni credente, ogni cristiano, è l’immagine di coloro che guardano il Crocifisso e sono chiamati a riconoscerne la potenza. Guardare, infatti, non significa soltanto vedere con gli occhi. Tanti vedevano, ma non contemplavano, non andavano oltre. Nel racconto di Giovanni vediamo come i Giudei abbiano visto, i soldati abbiano visto, ma senza capire. C’è un vedere il Crocifisso senza capire, ma c’è anche un vedere che capisce, come quello di Maria, delle donne e dei discepoli. Facciamo ancora eco alle parole dell’Apostolo Paolo: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1, 22-24).

Giovedì santo 2023: Li amò fino alla fine

Dal vangelo secondo Giovanni (Gv 13,1-15)

Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri». Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».

Commento

Giovanni, rispetto agli evangelisti sinottici (Marco, Matteo e Luca), non narra l’istituzione dell’Eucaristia nell’ultima cena, ma offre una prospettiva complementare, attraverso l’intensa scena della lavanda dei piedi. Il primo versetto del brano contiene il presupposto di tutto quello che si svilupperà nei capitoli successivi, non solo rispetto alla scena subito narrata, ma anche a tutto lo sviluppo della narrazione evangelica del mistero pasquale di Gesù e – non sembra un azzardo dirlo – di tutta la storia della salvezza: Gesù in quel momento, la sua “ora”, ha deciso una volta per sempre di amarci senza misura, senza scadenza e in maniera irrevocabile. Tutto ciò che è accaduto dopo e che viviamo ora ne è effetto: l’Eucaristia, la Passione, la Morte, la Risurrezione, il dono dello Spirito e la vita eterna. In quel momento di intimità con i suoi discepoli, Gesù rivela pienamente il suo essere Maestro e Signore. Egli non si china a lavare i piedi dei suoi discepoli, nonostante sia Dio, come una sorta di concessione, di abbassamento, una forma di solidarietà con noi che abbiamo i piedi sporchi della polvere del mondo, ma per mostrarci chi sia veramente Dio e come agisca nella storia. La sua sovranità e signoria non sono come quelle umane, che si affermano nel lasciarsi servire e onorare. La sua maestà è differente: si manifesta nel donarsi, nell’abbassarsi, nel purificare e ridonare dignità a tutti. Attraverso il gesto profetico di inchinarsi sulle nostre povertà, Cristo ha anticipato la sua Passione e Morte, attraverso le quali ha realizzato il suo disegno di salvezza per ciascuno di noi. Nelle parole che Gesù rivolge a Pietro titubante, si rivela il senso del suo gesto di kenosi, di spoliazione: lo si capisce pienamente soltanto quando egli sarà appeso al legno infame della croce. Solo chi è capace di riconoscerlo mentre si fa piccolo nella carne umana come un bambino, nel farsi nostro compagno di viaggio nelle ore più buie della nostra esistenza, nel donarsi come cibo per noi in poche briciole di pane e in poche gocce di vino nella Santa Eucaristia, fino al gesto estremo della condivisione dell’esperienza della sofferenza e della morte, può veramente aver parte con Lui, condividere la sua stessa vita. Chi entra in questa dinamica, non può che vivere come Gesù ha vissuto! Se ci lasciamo veramente servire e nutrire da Lui, non possiamo non scegliere lo stesso percorso: servire i nostri fratelli.