Caritas Veritatis

L'amore della Verità cerca l'ozio santo (Sant'Agostino)… blog di riflessioni, pensieri e condivisioni cristiane..


Quando si spengono le luminarie…. Feste patronali e vita cristiana

di don Antonio Donadio

Settembre, nel Sud, è il mese in cui si spengono le luminarie. È un tempo di passaggio che porta con sé un sapore dolce e amaro insieme: dolce, perché conserva il ricordo dei giorni intensi in cui il paese sembrava rinascere; amaro, perché al silenzio delle piazze si accompagna il ritorno di tutte le fatiche della vita quotidiana.

Le feste patronali hanno accompagnato per secoli la vita delle comunità meridionali. Sono state i giorni dell’anno in cui il popolo si riconosceva, si stringeva attorno al proprio santo, ritrovava il senso di appartenenza. Eppure oggi, più che in passato, lo spegnersi delle luci rivela uno scarto doloroso: la vita ordinaria appare intatta, segnata da precarietà, emigrazione, mancanza di prospettive. La festa non sembra lasciare frutto, come se fosse solo un’illusione collettiva.

Ecco perché lo spegnersi delle luminarie non è solo un’immagine malinconica, ma una metafora del nostro tempo: la fine delle luci rivela la verità della festa, la mette alla prova, costringe a chiedersi che cosa rimane davvero.

Per capire il significato autentico delle feste patronali occorre tornare alla radice biblica della festa. Nell’Antico Testamento, le feste non erano intervalli di evasione, ma memoria di eventi salvifici. La Pasqua ricordava la liberazione dall’Egitto; le Capanne rammentavano il tempo del deserto; la Pentecoste celebrava il dono della Legge. In ogni caso, la festa non era un lusso, ma una necessità: era la forma concreta con cui un popolo si riconosceva come tale, a partire dall’opera di Dio nella storia. Il cristianesimo porta a compimento questa logica: la Pasqua di Cristo diventa il cuore della festa, la domenica ne è il segno settimanale. Ogni festa cristiana è memoria e promessa: memoria di un evento di salvezza, promessa di una vita nuova.

Le feste dei santi, in particolare, dicono che la Pasqua di Cristo non è rimasta lontana, ma ha preso carne nella vita di uomini e donne concreti. Il santo patrono è il segno che Cristo è vivo e operante in quel popolo. Celebrarne la memoria significa confessare che la fede non appartiene solo al passato, ma continua a generare vita nel presente. Quando questo centro si smarrisce, la festa perde la sua natura. Non è più memoria e promessa, ma semplice evento. Non è più rito, ma spettacolo. San Paolo VI lo aveva colto con lucidità quando scriveva che “la pietà popolare è ricca di valori, ma fragile e bisognosa di purificazione” (Evangelii nuntiandi, 48). Papa Francesco ribadisce: “essa è tesoro del popolo di Dio, ma ha bisogno di essere continuamente evangelizzata” (Evangelii gaudium, 122–126).

Negli ultimi decenni, molte feste hanno subito un processo di trasformazione: da rito a evento. Il rito custodisce una memoria e apre a un significato; l’evento punta sull’impatto immediato. Il rito educa alla pazienza, l’evento sollecita emozioni rapide; il rito plasma un popolo, l’evento raduna spettatori. Le feste patronali rischiano di cadere in questa logica dell’evento. Non si misura più la loro riuscita dalla capacità di educare alla fede, ma dal numero dei presenti, dalla spettacolarità delle luminarie, dalla popolarità del cantante invitato. Persino le processioni possono trasformarsi in parate dove il gesto religioso cede il posto alla curiosità e al folklore.

Il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han ha parlato della “scomparsa dei riti” nella società contemporanea: tutto si riduce a eventi frammentati, incapaci di generare memoria e trasformazione. Le nostre feste non sfuggono a questo rischio. Quando smarriscono la forma rituale, smarriscono anche la loro forza di incidere sulla vita.

Questa deriva è ancora più drammatica se letta nel contesto del Sud. Qui la festa si colloca in un tessuto sociale fragile: disoccupazione cronica, emigrazione giovanile, spopolamento, carenza di infrastrutture e servizi. Per pochi giorni, la festa sembra ridare vita: i paesi si riempiono, gli emigrati tornano, le famiglie si ritrovano. Ma spente le luci, la realtà ritorna con la sua durezza.

La sproporzione tra l’illusione della festa e la vita quotidiana produce amarezza. È come se la festa fosse solo un anestetico collettivo: consola per qualche giorno, ma lascia più vuoti di prima. Charles Péguy, nelle sue pagine sulla speranza, distingueva tra la vera speranza e la sua caricatura. La speranza nasce dall’esperienza di un Dio presente nella realtà, l’illusione nasce dal desiderio di non vedere il male. Le nostre feste rischiano di cadere nella seconda logica: invece di aprire a un futuro, servono a rimuovere il presente. Ma la festa cristiana è l’opposto: non cancella la realtà, la illumina. Non rimuove il dramma, ma vi getta una luce di senso. È qui che si misura la differenza: se la festa apre alla speranza, allora è cristiana; se serve solo a illudere, allora è vana.

Luigi Giussani ha insegnato che il cristianesimo è un avvenimento che genera cultura. Cultura non nel senso elitario del termine, ma come un nuovo modo di guardare la realtà e di viverla. Una fede che non diventa cultura è una fede che non incide, che rimane astratta. Se le feste patronali non trasformano lo sguardo sulla vita quotidiana – sul lavoro, sulla famiglia, sull’impegno sociale – allora non stanno generando cultura. Restano eventi piacevoli, ma sterili. È come se la fede si fermasse alla superficie, senza raggiungere la radice dell’esistenza.

Eppure la potenzialità è grande. Le feste radunano persone che per tutto l’anno non si incontrano, riportano a casa gli emigrati, offrono occasioni di dialogo. Potrebbero diventare spazi privilegiati di educazione alla fede, luoghi di annuncio e di carità. Ma per questo serve una conversione: non più feste organizzate come eventi, ma feste vissute come cammini educativi.

Ed eccoci al nodo più profondo: la questione educativa. Le feste patronali non sono semplicemente un fenomeno religioso o culturale, ma toccano il cuore dell’umano. Infatti, dietro ogni festa si cela una domanda: che cosa rende bella e sopportabile la vita? Perché vale la pena vivere?

È la domanda radicale che Giussani chiamava “domanda di senso”. L’uomo non si accontenta di sopravvivere: vuole capire chi è, a che cosa è chiamato, dove può trovare compimento. Ogni festa, per quanto secolarizzata, porta ancora in sé questa nostalgia: radunarsi, celebrare, condividere è sempre il segno di un desiderio di pienezza. Ma qui si gioca la verità o la menzogna della festa. Se la festa diventa solo spettacolo, allora tradisce questa domanda: la copre di rumore e di luci, ma non le dà risposta. È come la folla descritta da Dostoevskij nel Grande Inquisitore: chiede pane e miracoli per non dover affrontare la libertà e il mistero della vita. Così accade nelle nostre feste quando si riducono a consumo: promettono felicità, ma consegnano solo stanchezza.

La vera festa, invece, educa proprio perché non censura la domanda di senso. Anzi, la desta con più forza. È qui che la festa diventa scuola: non perché impartisca lezioni, ma perché mette l’uomo davanti alla sua sete e gli mostra che la risposta esiste. Giussani scrive ne Il senso religioso: “Ciò che caratterizza l’uomo è l’esperienza di un bisogno infinito e irriducibile: il cuore dell’uomo è fatto per l’infinito”. La festa cristiana risponde a questo bisogno non con illusioni, ma con una Presenza: Cristo vivo, che nel santo patrono si fa compagno concreto. È Lui la risposta alla domanda radicale.

In questo senso, la festa educa se diventa esperienza di incontro. Non basta la processione, non bastano le luminarie: occorre che l’uomo percepisca che lì, in quel gesto, il Mistero entra nella sua vita. Solo così la festa diventa cultura, perché trasforma la domanda in cammino, l’illusione in speranza.

Il vero problema delle nostre feste, allora, non è la spettacolarizzazione in sé, ma il fatto che non educano più. Non aiutano a prendere coscienza della propria sete, non accompagnano a riconoscere Cristo come risposta. Si fermano al livello superficiale. Per questo non generano cultura: perché non toccano il cuore dell’uomo.La sfida è proprio qui: recuperare la dimensione educativa della festa. Non abolendo il folklore, ma trasfigurandolo. Non censurando la gioia, ma orientandola. Non spegnendo le luci, ma facendo sì che rimandino a una luce più grande, quella che non si spegne. Solo così la festa non sarà evasione, ma cammino. Non sarà illusione, ma profezia.

Alla fine, resta sempre la stessa domanda: che cosa rimane quando si spengono le luminarie? Se resta solo il vuoto, allora la festa è stata illusione. Se resta una coscienza più viva di Cristo, se resta un legame più forte nella comunità, se resta un’opera di carità, allora la festa è stata vera.

Il Sud non ha bisogno di luci che durano qualche giorno. Ha bisogno di una luce che non tramonta. Cristo è questa luce. Solo Lui può trasformare la festa da spettacolo a profezia, da evasione a speranza, da illusione a cultura.

Quando le nostre comunità lo riconosceranno, allora settembre non sarà più il mese della malinconia delle luci spente, ma il tempo in cui i frutti della festa cominciano a maturare. E le luminarie, anche se spente, continueranno a rimandare a quella luce che nessuna notte può vincere.



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