Dal Vangelo secondo Luca (Lc 17,11-19)

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
Commento

La lebbra, oggi, non è più una malattia temuta. La scienza la conosce come “morbo di Hansen”, dal nome del medico norvegese che ne scoprì il batterio nel 1873. Per la Scrittura però la lebbra è molto più di un’infezione: è simbolo di una ferita interiore, di tutto ciò che separa l’uomo da Dio e dagli altri. È la solitudine dell’anima, l’impurità che isola, il segno visibile di una lontananza spirituale. Per questo, quando Gesù guarisce i lebbrosi, non si tratta mai solo di restituire la salute, ma di ridonare la dignità e la vita. Nel Vangelo di oggi dieci uomini si fermano a distanza e gridano: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”. Egli non li tocca, non si avvicina, non compie alcun gesto straordinario. Dice soltanto: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. È una parola che sembra insufficiente, quasi disarmante: come possono presentarsi, se ancora sono impuri? Nonostante tutto, si fidano, non vedono ancora il segno, ma credono alla Parola. E mentre vanno, vengono purificati. La guarigione avviene lungo il cammino, non prima. Così è la fede: non si fonda sull’evidenza, ma sulla totale obbedienza, non nasce dal vedere, ma dal fidarsi senza riserve. La fede autentica vive del tempo e dello spazio del cammino. Il miracolo non è mai un atto magico, ma la dinamica di una fiducia che cresce passo dopo passo. È l’esperienza di ogni credente che, nella fedeltà quotidiana, scopre che la grazia agisce mentre cammina, anche quando non se ne accorge. La Parola del Signore non forza mai, non impone, ma opera nel segreto, trasformando chi la ascolta con cuore docile. Dei dieci guariti, però, solo uno torna indietro. E per giunta “era un samaritano”. Uno straniero, un escluso non solo dalla società, come lebbroso, ma anche dalla comunità religiosa, un eretico. È lui l’unico che riconosce nel dono ricevuto la presenza del Donatore. Gli altri nove si fermano al beneficio; lui scopre che c’è qualcosa in più. Gli altri hanno ritrovato la salute, mentre lui ha trovato la salvezza. Per questo Gesù gli dice: “La tua fede ti ha salvato”. C’è una differenza profonda tra essere guariti e essere salvati. Tutti e dieci sono stati guariti, ma solo uno è stato salvato. La guarigione libera il corpo; la salvezza apre il cuore verso Dio. È la fede che ringrazia a trasformare il miracolo in comunione: la fede che non si accontenta del dono, ma torna a incontrare il Donatore. La gratitudine è la forma più pura della fede, perché nasce dal riconoscere di essere amati gratuitamente. In quel samaritano che torna indietro, l’uomo ritrova se stesso davanti a Dio. Si prostra ai piedi di Gesù, loda e ringrazia: è l’immagine del credente che ha compreso il senso profondo della fede. Il miracolo vero non è la pelle purificata, ma il cuore che si apre alla lode, perché viene rinnovato in profondità. Il Signore non cerca malati da guarire, ma cuori che sappiano amare. Quando compie segni, lo fa sempre per portare ad un livello ulteriore. In ogni Eucaristia, “rendimento di grazie”, avviene questo ritorno. Ogni credente, come il samaritano, il credente guarito torna ai piedi di Cristo per dire grazie. Il suo “grazie” diventa comunione e relazione con Lui. È lì che la fede raggiunge la sua maturità: non nel chiedere e ottenere, ma nel ringraziare. La gratitudine è la porta della salvezza. Solo chi sa tornare, chi sa ricordare, chi sa apprezzare, scopre che il dono più grande non è ciò che ha ricevuto, ma Colui che dona tutto.
Bene-dire (a cura di Mons. Francesco Diano)
Un giorno, un medico che ha lavorato per molti anni in un lebbrosario ha esclamato: “Sia ringraziato Iddio per il dolore!”, poiché il motivo per cui i lebbrosi perdono le dita, gli arti e persino gli elementi che compongono il volto non è la malattia di Hansen (la lebbra), bensì l’assenza di sensibilità, l’intorpidimento, l’incapacità di provare dolore. Un lebbroso può facilmente scavarsi la carne delle dita girando una chiave in una serratura che offre resistenza, senza accorgersi che si sta tagliando; può non accorgersi che un’infezione sta invadendo la sua carne straziata finché non gli cadono le dita. Non ha alcuna sensazione, né prova dolori che lo avvertono. Un lebbroso potrebbe tenere in mano il manico bollente di una pentola posta sul fuoco, senza accorgersi che si sta bruciando la mano, poiché non ha né sensibilità né dolori che lo rendono cosciente del pericolo. Perciò sia ringraziato Iddio per il fatto di avere sensazioni e dolori, dal momento che, spesso, ci avvertono della presenza di un pericolo e di un male. Allo stesso modo, talvolta i vari disagi di cui facciamo esperienza ci mettono in guardia contro i nostri atteggiamenti distorti e paralizzanti. Resta il fatto che possiamo imparare le lezioni del dolore solo quando l’allievo è pronto. E Ciò significa che dobbiamo essere disposti a calarci nel nostro dolore, per cercare di trarne la lezione; significa che dobbiamo reprimere l’istinto che ci spinge a fuggirlo; significa che dobbiamo rifiutare qualsiasi inclinazione a intorpidirci nell’insensibilità pur di non sentire nulla (J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 148).
Preghiera
Insegnaci, Signore, a non amare solo noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari,
a non amare soltanto quelli che ci amano.
Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama.
Concedici la grazia di capire che in ogni istante,
mentre noi viviamo una vita troppo felice e protetta da te,
ci sono milioni di esseri umani, che pure sono tuoi figli e nostri fratelli,
che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame,
che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo.
Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo;
e non permettere più, o Signore, che viviamo felici da soli.
Facci sentire l’angoscia della miseria universale e liberaci dal nostro egoismo.
[Raoul Follereau (1903-1977), Giornalista, filantropo e poeta francese,
conosciuto anche come l’Apostolo dei lebbrosi]
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