Dal Vangelo secondo Luca (Lc 20, 27.34-38)
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».
Breve commento
Il centro della liturgia di questa domenica è data dal dialogo di Gesù con i sadducei, una corrente interna al giudaismo, che negava la risurrezione dei morti. Presentando la cosiddetta Legge del Levirato, che aveva come obiettivo quello di dare la discendenza ad una persona morta prematuramente, permettendo il matrimonio della sua sposa con un fratello di sangue del defunto, i sadducei vogliono mettere in crisi Gesù contestando la fede nella resurrezione. Il Maestro, però, presenta un chiaro messaggio sulla vita dei risorti. Essa non ha nulla a che vedere con le categorie umane di questo mondo. Nella resurrezione, non c’è moglie e marito, ma tutti i risorti, ossia coloro che sono ritenuti degni della ricompensa celeste, sono come angeli del cielo. Qual è la causa di questa realtà? É Dio la causa! Essere figli della risurrezione, è essere figli di Dio. La rivelazione a Mosè ne è un chiaro esempio: Dio gli si manifesta come il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, non il Dio dei morti, ma dei vivi. Ogni domenica noi rinnoviamo questa nostra fede nella risurrezione della carne. Che senso ha per noi? Essa, anzitutto, è un dono della Pasqua di Gesù. Come ci ricorda San Paolo: “se Cristo non è risuscitato dai morti, la nostra predicazione è vana, come è vana anche la nostra fede” (1Cor 15,14). Nel Battesimo tutti noi siamo stati inseriti in Cristo e prendendo parte alla sua vita divina, ereditiamo anche il frutto della Pasqua. Ai suoi amici, Lui, che è “la risurrezione e la vita” (Gv 11, 25), offre il dono di poter partecipare della sua stessa gloria. Che bello, proprio in questo mese di novembre, dedicato al ricordo e alla preghiera per i nostri defunti, meditare sul destino che ci attende nell’eternità! Non avrebbe senso pregare per loro, visitare le loro sepolture, dove si conservano i loro resti mortali, se non credessimo nella resurrezione, ossia se non avessimo la certezza che alla fine dei tempi, Dio darà una nuova vita, nel modo misterioso che solo Lui conosce, anche ai nostri corpi mortali. In un tempo in cui viene assolutizzato ciò che è terreno e temporale, mettendo da parte ciò che sa di eternità, parlare di resurrezione risulta assolutamente contro corrente. Parlare di vita eterna, dunque, può essere il modo bello di dare testimonianza della nostra fede, in un mondo che vuol mettere da parte Dio. Ma, noi stessi, ne siamo convinti? La fede nella risurrezione della carne non è qualcosa di secondario nel nostro credere, ma riveste un ruolo assolutamente centrale, dal momento che rappresenta il frutto della Pasqua di Gesù in noi.
Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)
Abbiamo tutti il diritto di conoscere la ragione, la prospettiva, l’esito delle nostre quotidiane avventure. Su molte abbiamo risposte certe e abbastanza sicure. Su altre – su troppe – ci sentiamo sprofondati in una trama misteriosa di eventi, che ci sfuggono. Non è bello e ci riempie la vita di tristezza. Ci sentiamo derubati dei nostri diritti, costretti a consegnarli nelle mani di altri. Ci consoliamo, rassegnandoci. Ma serve solo a peggiorare le cose. Il diritto al “perché”, che è proprio il diritto al senso, posseduto e go-vernato, non è un bene alienabile né scambiabile. […] È inutile cercare responsabilità. Ce ne possono essere tante. Alla radice sta però la vita stessa: siamo davanti alla morte per l’unica grande ragione che siamo vivi. Il mistero che la fede ci consegna, nelle parole vissute di tanti fratelli, ci restituisce una risposta: non spiega ma travolge. Penso a Gesù, ormai condannato a morte dopo un processo ingiusto. Reagisce alla schiaffo del soldato che sperava di guadagnarci in stima colpendo ingiustamente il povero Gesù, già distrutto dai primi passaggi della sua passione. Gesù mostra di essere lui il più forte, non perché chiama a sua difesa un esercito di angeli, cosa che poteva tranquillamente fare, ma perché riafferma di dare, lui stesso e solo lui, la sua vita per la vita di tutti. Diventa così signore della morte, lui, il signore della vita, perché sottrae al tiranno il diritto all’ultima parola, pronunciandola lui, forte e decisa, come gesto d’amore. Come lui, affascinati da grandi prospettive di senso o sconfitti nell’esperienza del vuoto, con le mani alzate ci sentiamo afferrati e ci ritroviamo pienamente signori della nostra vita: deboli nella nostra crisi e i più forti nella potenza di chi ci ha afferrato e restituito alla gioia di vivere e alla libertà di sperare.
(Riccardo TONELLI, Vivere di Fede in una stagione come è la nostra, Roma, LAS, 2013, 39-40)
Preghiera
Vieni tu da me, Signore,
e allora io potrò venire da te.
Portami a te
e solo allora potrò seguirti.
Donami il tuo cuore
e solo così potrò amarti.
Dammi la tua vita
e allora potrò morire per te.
Prendi nella tua risurrezione
tutta la mia morte
e sii mio, Signore, sii mio
affinché io sia tua in eterno.
(Silja Walter)
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