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Sono nato a Maratea (PZ), 33 anni fa.. sacerdote della Diocesi di Tursi-Lagonegro

III domenica del T.O./A: Nella luce della Parola

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 4,12-23)

Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce,per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta». Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono. Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.

Commento

Per volontà di Papa Francesco, a partire dal 2020, la Terza domenica del Tempo Ordinario è dedicata alla Parola di Dio. È ovvio che ogni domenica fondamentalmente lo è, dal momento che siamo sempre chiamati a nutrirci alla doppia mensa, quella della Parola e del Pane di vita. In questa, in particolare, il Santo Padre ci invita a riflettere in modo ancora più profondo sul nostro rapporto con la Parola, che è faro per il nostro cammino di fede, come ben canta il salmo 118: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”. Entrando nel brano del Vangelo di questa domenica, contempliamo Gesù che inizia il suo ministero a Cafarnao, nella terra di Zabulon e Neftali, tradizionalmente considerata una zona pagana, lontana dalla sfera di influenza del giudaismo tradizionale. L’evangelista Matteo rilegge questi eventi richiamando una profezia di Isaia, che fa riferimento proprio ad un evento di luce che accade per quei popoli. La luce della Parola, attraverso la presenza e la predicazione del Verbo fatto carne, rifulge per quei popoli apparentemente abbandonati alle tenebre. Quando diveniamo destinatari di una parola, facciamo esperienza di esistenza. Se ci pensiamo, cosa c’è di più terrificante di non vedersi rivolgere la parola da qualcuno? Dio non resta indifferente, per questo motivo, sin dalla creazione parla al cosmo e all’umanità, facendo passare con la forza della sua Parola dal non essere all’essere. Il salmista riecheggia questa circostanza del silenzio di Dio accostandola all’esperienza della morte: “A te grido, Signore, mia roccia, con me non tacere: se tu non mi parli, sono come chi scende nella fossa” (Sal 28,1). Dio parla al cuore dell’uomo come ad un amico e vuole anzitutto che egli si renda conto della sua presenza e della sua attenzione. È questo il senso dell’espressione di Gesù, secondo la quale il regno dei cieli sta arrivando, è prossimo. In fin dei conti, questo è il contenuto più essenziale della Parola: Dio c’è, è vicino a noi, tanto da farsi carne nel grembo di Maria. Questa irruzione ha certamente una conseguenza: l’uomo non è più solo, né schiavo delle tenebre. Egli è nella luce e per la luce, per questo deve convertirsi, ossia cambiare mentalità, orientarsi sempre di nuovo verso di essa, lasciando le opere delle tenebre. San Paolo ce lo ricorda bene: “È ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce” (Rm 13,11-12). In questo clima di illuminazione e di ascolto, si inserisce sempre di nuovo il mistero della vocazione. Dio parla a tutti, ma ad alcuni rivolge l’invito ad un coinvolgimento ancora più profondo: quello di lavorare per il regno a tempo pieno. In questa domenica della Parola, con onestà e coraggio, chiediamoci: perché oggi si avverte meno nelle nostre comunità questo desiderio di coinvolgimento vitale dei nostri giovani nella causa del Vangelo? Forse perché Gesù non chiama più, oppure forse perché i nostri giovani non sono più generosi? Non è forse, invece, perché non siamo più in grado di rimanere in questo clima di illuminazione e di ascolto che solo la Parola viva ed efficace di Cristo può darci? Torniamo a fare un po’ più di silenzio, ad ascoltare, a familiarizzare con la Scrittura e forse così, come Chiesa, torneremo ad ascoltare la voce dello Sposo, che ci parla e parla al cuore di tanti per chiederne un coinvolgimento e un impegno più profondi, senza lasciarci distrarre dal tanto fare, dalla sete di iniziative, che spesso genera soltanto protagonismo e mediocrità, senza intima adesione a Lui.

Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)

La prima attività o energia dello Spirito in noi è la metànoia, la conversione o pentimento. Questo volgersi indietro del nostro nous (metanoia), questo cambiamento del cuore, è il nostro primo momento di verità davanti a Dio, a noi stessi e ai fratelli. Alcuni padri della chiesa ritenevano che essa comportasse normalmente il battesimo delle lacrime, a loro avviso il chiaro segno che lo Spirito si stava impossessando del corpo di un uomo: l’uomo capitola, la sua resistenza va in frantumi, ed egli piange. Si potrebbero vedere dei paralleli a quest’esperienza con esperienze analoghe riscontrate nella psicanalisi: ha luogo una sorta di catarsi. L’uomo piange e si arrende, si arrende allo Spirito santo, a quella nuova consapevolezza di se stesso che gli è possibile acquisire mediante il battesimo delle lacrime. Mi sembra di poter dire che la conversione, il pentimento, non è solo un tema del quale è difficile parlare ai nostri giorni, ma è anche  visti i complessi che attanagliano l’uomo moderno  uno dei più difficili da mettere a fuoco con precisione e da vivere autenticamente. E tuttavia rimane essenziale. Il pentimento è oggi qualcosa che suscita repulsione. Ci troviamo a vivere in un periodo di transizione tra la nevrosi ossessiva (se così si può chiamarla) che caratterizzava il periodo immediatamente precedente al nostro, e l’effervescenza e l’aggressività adolescenziali di un periodo che si sta liberando da tale nevrosi. A chi è già divorato dall’angoscia l’evidenza del peccato può creare soltanto un’angoscia ancor più insopportabile. Il peccato era del tutto intollerabile nell’epoca precedente alla nostra, e gli uomini cercavano di liberarsene ricorrendo a quella che i padri erano soliti chiamare dikaioma, la pretesa di esser giusti, l’autogiustificazione: non si era in grado di portare il peso del peccato? E allora ci si convinceva d’esser giusti mediante un’osservanza esteriore della legge, o piuttosto, di un certo numero di regole. In realtà, in questo modo non si fa che sfuggire alla conversione, alla metànoia. Oggi, invece, manifestiamo un’effervescenza e un’aggressività adolescenziali che sono altrettanto nevrotiche, e per le quali il peccato è altrettanto insostenibile; la soluzione odierna consiste tuttavia nel dire che non esiste il peccato (A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon/Comunità di Bose, Magnano (Biella) 2001, 9-20).

Preghiera

O Signore, mio Dio e mio Salvatore, Gesù Cristo,
continuo a chiederti di darmi la grazia della conversione.
Giorno e notte spero soltanto una cosa:
che tu mi mostri la tua misericordia
e lasci che io sperimenti la tua presenza nel mio cuore.
Fa’ che io pervenga a un genuino atto di pentimento,
a una preghiera sincera e umile, a una generosità libera e
spontanea.
Vedo così chiaramente la strada da seguire!
Comprendo così bene che mi è necessario venire a te.
Posso insegnare e parlare con eloquenza sulla vita in te;
ma il mio cuore esita,
il mio io interiore e più profondo ancora si tira indietro,
vuole mercanteggiare, vuole dire: «Sì, ma…».
O Signore, continuo forse a dimenticare che tu mi ami,
che tu mi aspetti a braccia aperte?
Come un padre con le lacrime agli occhi,
tu vedi come il tuo figlio stia distruggendo la vita stessa che tu gli hai
dato.
Ma anche come un padre tu sai che non puoi costringermi a tornare a
te.
Solo quando verrò liberamente a te,
quando mi scuoterò liberamente di dosso le preoccupazioni e gli
affanni
e confesserò liberamente le mie vie sbagliate
e chiederò liberamente misericordia,
solo allora tu potrai darmi liberamente il tuo amore.
Ascolta la mia preghiera, o Signore, ascolta la mia difesa,
ascolta il mio desiderio di ritornare a te.
Non lasciarmi solo nella mia lotta.
Salvami dalla dannazione eterna e mostrami la bellezza del tuo volto.
Vieni, Signore Gesù, vieni. Amen.

 
(J.M. NOUWEN, (manoscritto inedito), in ID., La sola cosa necessaria.
Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 239-240)

II domenica del T.O./A: Ecco l’agnello di Dio

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 1,29-34)

In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

Commento

La pagina evangelica di questa domenica, tratta dal primo capitolo del Vangelo di Giovanni, si pone in continuità con l’episodio del Battesimo del Signore, sul quale abbiamo meditato nella festa di domenica scorsa. Il quarto evangelista non presenta il racconto del battesimo di Gesù come i sinottici, ma attraverso la prospettiva del testimone dell’evento, Giovanni il Battista. Vedendo passare il Figlio di Dio, lo proclama “Agnello di Dio”, richiamando tutto un filone dell’Antico Testamento che era chiarissimo ai suoi ascoltatori. Cristo, il Verbo-Agnello, viene a compiere le prefigurazioni dell’Antico Testamento, in particolare dell’Esodo, operando la vera liberazione dalla schiavitù: non quella dall’Egitto e dal faraone, ma quella dal peccato e dal maligno. In ogni epoca e latitudine si è sempre riflettuto sui problemi del mondo, esorcizzando la sofferenza e la morte, in tanti modi e con tante tecniche. Questo annuncio del Battista va alla radice: il vero problema e la vera malattia del mondo è il peccato, il rifiuto di Dio. L’Agnello innocente e mansueto è venuto nel mondo per assumere questo peccato su di sé ed eliminarlo completamene! Questa è l’unicità del mistero di Cristo, che realizza l’opera di Dio. Nessuno può rimettere il peccato, se non Dio solo! Giovanni lo annuncia e lo testimonia, con umiltà e decisione. Egli si riconosce oggetto privilegiato di questa rivelazione, che proclama e diffonde con coraggio! Lui stesso lo ha conosciuto, facendo il proprio cammino di fede e di adesione personale, per poi diventarne il testimone. L’apertura di Giovanni nel cogliere i segni e le profezie gli concede di poter riconoscere in Cristo il Figlio di Dio, colui che riapre la comunicazione fra il cielo e la terra, donando lo Spirito in abbondanza. Come Giovanni, anche noi siamo chiamati a vivere questo cammino di incontro con il Signore, riconoscendolo come l’unico nostro Salvatore e il medico delle nostre anime, l’unico che può estirpare dal mondo e da noi stessi il veleno del peccato e donarci lo Spirito, che ci dona il potere di diventare figli di Dio.

Epifania del Signore 2023: Il santo viaggio

Dal vangelo secondo Matteo (Mt 2,1-12)
Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”». Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.

Commento

Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio” (Sal 84,6). Con questa espressione del salmo iniziamo la breve riflessione per questa solennità dell’Epifania, in cui celebriamo la manifestazione (epiphaneia) di Nostro Signore Gesù Cristo a tutte le genti, rappresentate dalle figure affascinanti e misteriose dei Magi. Questi sapienti, partiti dall’oriente, uomini dal cuore inquieto e in ricerca, hanno seguito la stella delle loro domande di senso ed osservando la realtà, si sono messi in cammino verso l’ignoto. Dio ha misteriosamente operato nei loro cuori, come fa in quelli di tanti che apparentemente sono lontani, per permettere l’incontro con Lui in Cristo. Essi hanno deciso nel loro cuore il “santo viaggio” della ricerca, del mettersi in discussione, dell’abbandono delle certezze, per lasciarsi condurre dall’Altro. Questi sapienti non hanno temuto di lasciarsi guidare, prima dalla stella, poi dalle profezie, per raggiungere il Logos fatto carne, la Ragione di tutte le cose. Troppo spesso a causa del nostro orgoglio e della nostra autoreferenzialità non ci mettiamo in questo santo viaggio della vita e della ricerca di Dio, perché pensiamo di non averne bisogno. Pieni di noi stessi, distratti dalla ricerca di consensi e dal desiderio di apparire perfetti, seppelliamo sotto le ceneri del nostro orgoglio il desiderio di infinito ed eterno che c’è in noi. Senza questa umiltà di chi riconosce il proprio limite, sa farsi domande e soprattutto sa lasciarsi guidare, nessun viaggio spirituale può iniziare in noi, rimanendo prigionieri delle acque stagnanti delle nostre pseudo-certezze. Chi invece con umiltà si lascia interrogare e guidare, proprio come i Magi, può giungere alla “grandissima gioia” dell’incontro col Cristo e aprire lo scrigno della propria vita davanti a Lui. Alla sua presenza, il nostro cuore spesso prigioniero della paura e degli schemi, proprio come lo scrigno dei Magi si apre, per effondere davanti a lui ciò che c’è di più prezioso, l’oro dei nostri doni di fronte al vero Bene, l’unica Ricchezza dei popoli, l’incenso del nostro essere, dei nostri pensieri, dei nostri desideri, di fronte al Dio Vero, la mirra delle nostre fragilità e inconsistenze, di fronte al Vero Uomo. Di certo, vivendo quest’esperienza unica e trasformante, non si può far ritorno alla stessa vita di prima, ma come i sapienti dell’oriente, anche noi siamo chiamati a far ritorno “per un’altra strada”, attraverso un’autentica esperienza di conversione, lasciando le vecchie strade, per intraprenderne di nuove e più luminose.

Solennità di Maria Santissima Madre di Dio 2023 – Il valore del nostro tempo

Dal vangelo secondo Luca (Lc 2,16-21)

In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

Commento

Il primo gennaio, solennità di Maria Santissima Madre di Dio, che cade nell’ottava di Natale, coincidendo con il primo giorno dell’anno solare, è sempre un’occasione per riflettere sul nostro rapporto con il tempo e la storia. Il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, avvenuto nella “pienezza del tempo” (Gal 4,4), è l’evento che ha cambiato il corso della storia, in quanto per mezzo di Lui noi siamo stati costituiti in una relazione nuova con l’Assoluto e con l’Eterno, quella della figliolanza. La venuta di Cristo coincide con la pienezza del tempo, in quanto tutti gli annunci profetici trovano il loro compimento in Lui e questa unione tra l’eterno e il temporaneo, l’infinito e il finito, nel grembo di Maria, da’ un senso nuovo allo scorrere del tempo e alla vita di ciascuno. Il nostro concetto di tempo non può essere ormai più soltanto di natura cronologica, ovvero considerato semplicemente come istanti che si succedono senza senso, ma – come figli ed amici di Cristo – siamo immersi in una dimensione orientata e salvifica del tempo, in cui riceviamo la salvezza e la grazia nell’oggi del nostro spazio e della nostra storia. La fede cristiana, proprio alla luce del mistero dell’Incarnazione, è sempre ben radicata nello spazio e nel tempo, ed è proprio lì che si gioca la nostra salvezza. È sempre significativa l’espressione usata da Gesù nei confronti di Zaccheo, quando, vedendolo sull’albero, intento a guardarlo dall’alto, lo invita a scendere perché in quell’oggi, voleva fermarsi da lui (Cf. Lc 19,5). Anche noi, come il discepolo Zaccheo, siamo in quest’oggi dell’incontro con il Signore che viene. Alla fine di un anno solare e sul punto di accogliere il nuovo, siamo chiamati a rendere lode al Signore, facendone memoria, per le belle occasioni di grazia che ci ha dato, in cui si è fermato con noi, ma anche a chiedergli perdono per tutte le volte in cui siamo stati distratti e abbiamo vissuto senza di Lui, preferendo la solitudine del peccato e dell’egoismo. Questa occasione del nuovo anno ci è propizia per rafforzare la nostra memoria spirituale, che non è certamente lo spazio dei rimpianti e dei rimorsi, ma quella terra santa in cui custodiamo – come nel cuore di Maria – gli eventi meravigliosi della nostra salvezza e dove rinnoviamo la nostra fiducia infinita nella misericordia, che come un mare sconfinato seppellisce le nostre miserie. È anche un momento in cui affidarci alla Provvidenza, che guida la storia, e nei cui imperscrutabili disegni si ritrova il nostro futuro, a cui guardare con fiducia e speranza, senza angosce e paure del domani. In ogni caso, seppure il passato è memoria e misericordia e il futuro provvidenza e speranza, su di essi non abbiamo “potere”. È sempre il presente, invece, che siamo chiamati a vivere in pienezza, perché lì si gioca l’occasione per essere presenti a noi stessi, far tesoro delle conquiste e degli errori del passato e costruire pazientemente il futuro, lasciandoci illuminare dalla sua Presenza.

Natale del Signore 2022

Dal vangelo secondo Luca (Lc 2,1-14)
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio. C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».

Commento

Matto è chi spera che la nostra ragione Possa trascorrer l’infinita via Che tiene una sustanza in tre persone

State contenti umana gente al quia Che se potuto aveste veder tutto Mestier non era parturir Maria” (Dante Alighieri, Purgatorio, III).

Queste splendide parole del Sommo Poeta sono un’ottima introduzione per la riflessione di questo Santo Natale. L’ incarnazione del Figlio di Dio è, infatti, un grande mistero, non afferrabile dalla ragione umana, esattamente al pari di quello della Santissima Trinità. Come non sarebbe possibile con la sola ragione umana comprendere il senso di un’unica sostanza divina uguale e distinta in tre persone, così allo stesso modo non si potrebbe comprendere il senso dell’unione fra la natura divina e la natura umana nel grembo di Maria, senza la speciale rivelazione di Dio, che accanto al piano della semplice ragione, esige l’adesione umile e ferma della fede. Dio si è fatto uomo per rivelare se stesso all’uomo e realizzare una nuova Alleanza con lui, colmando l’abisso tra il cielo e la terra, tra l’infinito e il finito, tra il tutto e il frammento. Nel mistero del Natale, unendosi all’umanità nel Verbo fatto carne, Dio manifesta il suo interesse per l’umanità e per ciascuno di noi. Egli decide di abitare le trame della nostra storia umana scegliendo una volta per sempre la strada della piccolezza e della fragilità. Leggendo la pagina evangelica del racconto della nascita di Gesù, secondo la redazione di Luca, ci colpisce sempre di nuovo come la storia dell’Impero e della Palestina del I secolo divenga l’ambito della realizzazione del piano di Dio. Questo accade anche nella nostra vita. Dio non è lontano dalla nostra esistenza e dal nostro tempo, ma usa questi come luoghi in cui operare e salvare. L’agire di Dio si intreccia con la grande storia dell’umanità, ma avviene con la semplicità di un bambino che nasce. Colui che è generato prima del tempo Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, viene alla luce nel tempo da una madre vergine, una fanciulla debole e sconosciuta. Colui che i cieli non possono contenere, l’Absolutus, colui che non ha i vincoli dello spazio e del tempo, viene avvolto in fasce, prigioniero della fragilità e della piccolezza. L’incontenibile si lascia contenere in una mangiatoia. Colui che dall’eternità abitava i padiglioni inaccessibili del cielo, non trova posto neppure in un alloggio umano, ma si fa compagno delle bestie. Leggendo il brano, si percepisce come i paradossi continuino. Non sono i potenti, i ricchi e quelli che stanno sul pezzo, ad essere i primi destinatari dell’annuncio del Natale, ma i pastori, accampati in quella valle per badare alle greggi: essi sono gli ultimi, i disprezzati e reietti, coloro che stanno più con le bestie che con gli uomini. Eppure Dio li sceglie e vuole loro come primi testimoni della sua Venuta. Di fronte a questo Mistero ineffabile, siamo anche noi disposti ad accogliere questo modo di fare di Dio? Siamo capaci di lasciarci sorprendere dal suo modo di fare paradossale e irrituale? Dio ci supera sempre! La nascita di Cristo è per noi oggi, in questo mondo segnato da violenze e contraddizioni, un segno di salvezza e speranza, che ci aiuta a rinnovare il nostro desiderio di luce e di compimento. Il regista della storia è sempre Lui, che ha scelto la nostra umanità come luogo per rivelarsi e salvarci. Buon Natale a tutti!

IV domenica di Avvento/A: L’eccomi di Giuseppe

Dal vangelo secondo Matteo (Mt 1,18-24)

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.

Commento

In questa quarta domenica di Avvento, già collocata nelle cosiddette “ferie maggiori”, gli ultimi giorni che ci separano dalla celebrazione del Natale del Signore, la liturgia della Chiesa ci invita a contemplare gli antefatti immediati alla nascita del Figlio di Dio. Nella prospettiva di Matteo, complementare a quella di Luca che narra l’annuncio dell’angelo a Maria, i fatti vengono narrati dal punto di vista dell’esperienza di Giuseppe. Come si può vedere qualche versetto prima, la genesis di Gesù, ossia la sua generazione, rompe lo schema della genealogia secondo la quale A genera B. Al versetto 16 ci viene detto: “Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo”. Già da quest’elemento testuale è evidente che la nascita del Messia è in discontinuità rispetto ad una normale nascita umana. Giuseppe è lo sposo di Maria e pur non avendo concepito Gesù dal punto di vista genitale, egli ha una speciale vocazione, quella di essere il vero padre di Gesù, avendolo inserito nella discendenza davidica ed essendo stato il custode di questo evento straordinario. Questa pagina evangelica descrive la sua vocazione. Egli viene descritto come uomo giusto, che nella prospettiva biblica significa uomo di fede, uomo che vive alla presenza di Dio e cerca la sua volontà. In questa disposizione egli si trova ad affrontare una situazione più grande di lui. Leggendo in modo superficiale, possiamo pensare che Giuseppe fosse molto arrabbiato, alla scoperta che la sua promessa fosse già incinta, e certamente non di lui! Scendendo più in profondità, però, possiamo intuire che Giuseppe può essere venuto a conoscenza della verità dei fatti solo da Maria, la quale gli avrà certamente raccontato l’esperienza dell’angelo. Di fronte a questo, il giusto si sente inadeguato, indegno, turbato, per questo pensa di farsi da parte. È troppo per lui. Nello stesso tempo non vuole esporre Maria a rischi, quindi pensa di separarsi da lei in segreto. Di sicuro, un uomo arrabbiato e deluso, non avrebbe agito in questo modo e con tutta questa delicatezza! Il seguito della narrazione, centrandosi sul modo in cui Giuseppe vive il suo dramma interiore, i suoi dubbi vocazionali, dimostra – come in ogni racconto di vocazione – che il Signore incoraggia e sostiene, perché le paure umane e le resistenze siano vinte. Quante volte anche nella nostra vita, di fronte ai nostri dubbi ed incertezze, quando ci apriamo con verità ai disegni di Dio, sperimentiamo queste divine rassicurazioni. Come per Giuseppe, chiamato a dare il nome al figlio di Dio, esercitando una vera paternità, anche per ciascuno di noi c’è un disegno di Dio che siamo chiamati a riscoprire nel silenzio e nella preghiera, anche vivendo le contraddizioni della storia. Con la conferma della Parola, Giuseppe, il giusto, agisce di conseguenza, rinnovando la sua piena fedeltà a Dio e alla sua vocazione. Con i fatti, anche lui dice il suo “eccomi!’, senza riserve.

Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)

Giuseppe è della stessa tempra di Maria: un credente in ascolto di ciò che gli avviene. La notizia della maternità prossima di Maria non suscita in lui alcuna reazione difensiva. Di lui non si conserva alcuna parola. Non è una persona che parla o aggiusta le cose a proprio vantaggio: si limita ad ascoltare ciò che l’angelo gli rivela. La verità di Dio è più importante di ciò che Giuseppe vive. E questa verità Giuseppe la rispetta senza alcuna aggressività, senza nemmeno pensare a difendersi. Sia per Maria che per Giuseppe, l’annunciazione è una cosa incredibile. Nessuno può essere all’altezza di una simile verità. Nonostante questo, non vi è nessuno scetticismo, nessun comportamento attendista, nessuna presa di distanza, niente che faccia pensare a un sentimento di rivalsa. Solo fede e abbandono. Maria e Giuseppe hanno rinunciato alla loro verità per entrare in quella di Dio. E noi? Noi non possiamo essere felici, se non riusciamo a leggere in profondità gli eventi della nostra esistenza. Dio è presente nella nostra esistenza: in nessuna delle sue vicende manca il suo disegno, la sua intenzione di dirci qualche cosa. È una verità da scoprire anche in questo momento (DANNEELS G., Le stagioni della vita, Brescia 1998, 210-211).

Preghiera

Laudato sii, mio Signore, per questo nostro infinito amore. A te ritornerà come goccia nel mare. Laudato sii, mio Signore, per il forte desiderio di amare che ci hai posto in cuore… Laudato sii, mio Signore, per il desiderio mai saziato di te, unico Amore, del quale stesso amore ci amiamo senza mai sazietà, per il quale amore è più desiderabile soffrire che non possederlo. Laudato sii, mio Signore, per questa nostra esistenza che ti degni di condurre provvidente, e per la quale, grati, ti benediciamo. Laudato sii, mio Signore, per ogni evento della tua volontà, che su di noi troverà il suo compimento.. Laudato sii, mio Signore, per il nostro infinito amore.

III domenica di Avvento/A: L’amore è giustizia superata

Dal vangelo secondo Matteo (Mt 2,1-11)

In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

Commento

Tutta la vita e la predicazione di Giovanni il Battista sono stati una fedele preparazione all’arrivo del Signore ed egli, come vero profeta, ha pagato di persona con il carcere e poi con il martirio. Il suo messaggio non è stato soltanto pura teoria, ma ha toccato la sua carne viva. Ed è proprio questo uno dei segni della verità di un profeta: la sua vita non è mai “altro” rispetto al suo messaggio, perché la medesima esistenza diventa messaggio. Nonostante la trasparenza della sua testimonianza radicale al Messia, egli ha dovuto anche camminare come pellegrino nella fede. La domanda, infatti, che rivolge a Gesù per mezzo dei suoi discepoli, è il chiaro segno di questo cammino spirituale di ricerca che egli stesso ha vissuto. Evidentemente l’idea che egli aveva del Veniente non coincideva esattamente con quello che vedeva realizzarsi nel figlio di Maria. Spiritualmente sveglio e vigile, egli si è interrogato, disposto a lasciarsi mettere in discussione dai fatti. Di fronte alla domanda, Gesù non risponde in maniera teorica, ma lo fa riferendosi ad esperienze concrete e tangibili. Ricordiamo sempre che la conoscenza di Dio e il discernimento nella fede non si realizzano con teorie, belle parole o discorsi astrusi; soltanto l’incontro vivo e l’esperienza personale di una vita trasformata possono essere i segni del passaggio di Dio. Giovanni aspettava un Messia giudice, capace di dividere subito il nero dal bianco, il grano dalla zizzania, attraverso la scure della verità e della giustizia. L’arrivo del Messia, però, lo spiazza: Egli non viene a tagliare teste, a sradicare violentemente la zizzania col rischio di estirpare anche il buon grano, ma – come ci ricorda il profeta Isaia – “Egli non griderà, non alzerà la voce, non la farà udire per le strade. Non frantumerà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante; insegnerà la giustizia secondo verità” (Is42,2-3). Chi di fronte a questo agire di Cristo non si scandalizza, ma vi riconosce il Messia Salvatore, come Lui stesso ci dice, è beato. In un mondo in cui spesso non si vede altro che bianco e nero, in cui non si ha la sensibilità di vedere il positivo che può esserci in ogni persona o situazione, Gesù viene ad aprirci una strada nuova, in cui la forza trasformante è data dall’amore e della misericordia, anche quando tutto sembra perduto. Il Vangelo non ci dice cosa accadde in carcere, dopo che i discepoli tornarono a riferire a Giovanni la risposta di Gesù. Dalle parole del Maestro e dalla storia del martirio del Battista, tuttavia, possiamo facilmente intuire che egli non si scandalizzò di Lui, ma lo annunciò fino in fondo, con il sangue. L’espressione finale di Gesù, infine, ci regala un ulteriore motivo di riflessione. È vero, Giovanni è stato l’uomo più grande della storia, il profeta più santo e radicale. La prospettiva del Regno, tuttavia, è infinitamente più grande: Giovanni era uno che umanamente aveva capito molte cose ed ha saputo essere fedele. Chi, però, è nella piena signoria di Dio, nel Regno, seppure sia il più piccolo lì, è comunque oltre ogni prospettiva umana. Scrive don Fabio Rosini: “Non un piccolo nato da donna possiede per sua propria qualità il Regno dei Cieli. Perché lo vedono i ciechi, vi entrano gli zoppi, lo odono i sordi e ne beneficiano i lebbrosi; risveglia i morti. È dei poveri. Non è giustizia, la supera. È amore che riscatti chi ha sbagliato, che raccoglie chi dovrebbe essere buttato via, che viene a cercare chi non serve a niente perché non ne può fare a meno” (F. ROSINI, Di Pasqua in Pasqua, Commenti al Vangelo domenicale dell’anno liturgico A, San Paolo, 2022, 25-26).

Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)

Nelle mie riflessioni sulla fede ho incontrato una pagina di un documento che i cristiani riconoscono come “parola di Dio”: il capitolo 11 della Lettera che un autore anonimo ha scritto due mila anni fa agli Ebrei per mostrare che Gesù di Nazaret è proprio quel salvatore che loro stavano aspettando. […] Il capitolo si apre con una definizione di fede, tanto originale quanto simpatica: “La fede è un modo di possedere già le cose che si sperano, di conoscere già le cose che non si vedono” (Eb 11,1). Nei fatti della nostra vita ci sono delle cose che si vedono e ce ne sono molte altre che invece restano nascoste. Di solito, è facile distinguere tra ciò che si vede. Vedo l’amico che è fisicamente presente vicino a me. Posso sentire la sua voce, gioire (o rammaricarmi) della sua presente. Questa non è l’unica possibile. Altre persone sono vicine anche se, in questo momento, non lo sono fisicamente. Non le possiamo vedere, se non con gli occhi dell’amore e della fantasia. In questi casi è chiaro ciò che si vede e ciò che non si vede. Il gioco tra ciò che si vede e ciò che non si vede, suggerito dalla definizione di fede della Lettera agli Ebrei, non va inteso come la differenza tra un amico che sta fisicamente vicino a te ed un altro, egualmente simpatico, che non è in questo momento vicino fisicamente. In un avvenimento e in una persona, possiamo vedere ciò che, in qualche modo, può essere toccato con mano. Riconoscimento però che non finisce tutto lì. In una persona amara c’è un mistero, grande e profondo, che tutta l’avvolge. Questa realtà invisibile e misteriosa è tanto decisiva da avvertire la persona stessa in un modo specialissimo. Quello che non si vede diventa la categoria attraverso cui impostiamo il nostro giudizio e il nostro rapporto con quello che si vede. […] La definizione di fede che ho riportato dalla Lettera agli Ebrei parte da questa situazione e aggiunge: la fede è quell’atteggiamento che permette di vedere anche quello che non si vede, fino al punto di valutare ed esprimere quello che si vede dalla parte di quello che non si vede. Un piccolo particolare non dovrebbe sfuggirci. La definizione di fede riportata contiene una ripetizione. Apparentemente le due frasi dicono, con parole diverse, la stessa cosa. C’è però una sottolineatura originale: le cose che non si vedono sono “sperate”… e cioè attese, desiderate, ricercate. La voglia di verità porta a scavare in quello che si vede per arrivare a mettere le mani, con gioia, sul mistero che si portano dentro (TONELLI R., Vivere di Fede in una stagione come è la nostra, Roma, LAS, 2013, 17-19).

Preghiera

«Beato chi non si scandalizzerà di me»: sostieni la nostra fede, Signore Gesù, quando è tentata di scandalizzarsi per la tua ‘debolezza’. Donaci la convinzione e la sapienza che animava il tuo apostolo Giacomo: egli, che ben conosceva le grandiose promesse di Isaia, ha creduto che tu le hai realizzate, anche se nulla sembrava apparentemente cambiato nel mondo, dopo il tuo passaggio. Dona anche a noi la pazienza dell’agricoltore, per seminare speranza. Fa’ che accogliamo con riconoscenza il tuo vangelo di gioia, la buona notizia per i poveri e insegnandoci la pazienza; edifica in noi una fede forte. Donaci la beatitudine di essere tuoi discepoli, la tua stessa gioia, la gioia del Padre nel fare del bene, anche quando ci toccasse di apparire perdenti. Ravviva in noi la memoria dei benefici ricevuti, perché possiamo deciderci ancora oggi per il tuo vangelo e perché, anche quando non riconosciamo le tue vie, continuino come il Battista ad esserti fedeli.

Solennità dell’Immacolata Concezione della B.V. Maria 2022: La tutta bella

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 1,26-38)

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Commento

L’Avvento, questo tempo forte che ci prepara al Natale e ci fa contemplare la venuta di Dio nella storia, ha in Maria uno dei protagonisti privilegiati. Dal punto di vista liturgico, infatti, il vero “mese mariano” è proprio l’Avvento. Contemplando la bellezza della Madre del Signore, nella solennità dell’Immacolata Concezione, veneriamo in modo speciale Colei che il Padre dall’eternità ha eletto per essere la dimora splendente del Figlio e nel cui grembo si sono realizzate le mistiche nozze fra Dio e l’umanità nel mistero del Natale. Dio, nel suo disegno imperscrutabile, ha preservato la Madre del Figlio suo dal peccato originale e da ogni peccato. La luminosa pagina evangelica di questa solennità ci aiuta ad entrare nel mistero di questa umile fanciulla che Dio ha scelto nella periferia di un villaggio della Galilea, concedendole il dono di una grazia tutta particolare. La Vergine è salutata dall’angelo come “colei che è ripiena della grazia” (kecharitoméne). Ella, infatti, è un vero miracolo della grazia, che trasborda dalla sua persona. Dio si serve di lei per irrompere con la sua potenza nella storia. Chi, se si mettesse nei panni di questa fanciulla, non rimarrebbe turbato di fronte ad un mistero così grande? È l’irruzione del Tutto nel frammento, dell’Eterno nel tempo. Maria ne è il sacrario e il tabernacolo. La potenza dell’Altissimo la copre con la sua ombra e si compiono le parole dell’Esodo: “allora la nube coprì la tenda del convegno e la Gloria del Signore riempì la Dimora” (Es 40,34). Il miracolo dell’Immacolata consiste nel fatto che Maria, in virtù dei meriti della Passione e Morte redentrice di Cristo, è resa tutta bella, “tota pulchra” come si canta nell’antifona tradizionale. Ella viene introdotta in quell’innocenza che per noi uomini, eredi della condizione di Adamo, è possibile solo accogliendo la grazia divina nel cammino di conversione e santificazione. Ciò che è avvenuto in Maria in modo preveniente, per noi è possibile solo aderendo all’opera santificatrice dello Spirito, con un percorso di piena maturità nel Figlio. Maria, dunque, per una grazia singolarissima, è già ciò che noi potremo essere soltanto alla fine del cammino di santità. Il privilegio di Maria, però, non deve farci sentire distanti e diversi da Lei, ma piuttosto spronarci a ricercare e perseguire sempre di più la bellezza della santità, imitandone le virtù, l’esempio del discepolato e invocandone la tenera e materna intercessione. Maria è per noi modello di una vita pura, bella e santa, che solo Dio – se aderiamo al suo disegno di amore – può donare a ciascuno di noi.

II domenica di Avvento/A: Paglia o frumento?

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 3,1-12)

In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaìaquando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

Commento

In questa seconda domenica del tempo di Avvento, lasciandoci illuminare da questa pagina del Vangelo di Matteo, siamo invitati a riflettere sul senso della storia dell’umanità e di ciascuno di noi, guardando a come in tutto sia sempre Dio a muovere il primo passo. L’uomo è creato per libera iniziativa di Dio, così come per lo stesso motivo Egli ha rotto il silenzio e ha suscitato nel mondo la Parola e i Profeti. Giovanni il Battista è uno di quei segni dell’attenzione di Dio verso l’umanità. Egli, predicando in un luogo ostile, sterile e vuoto qual è il deserto, ricorda ai suoi contemporanei, come a ciascuno di noi, che Dio è vicino all’uomo, che il suo regno, ossia la sua signoria, è interessata a noi, ci vuole con sé, per questo si rende vicina. Tale irruzione di Dio evidentemente richiede una risposta. Non può lasciare l’umanità indifferente e fredda: è necessaria la metánoia, il cambiamento di mentalità, la conversione da una vita senza di Lui, ad un’esperienza che gli restituisca centralità, dove i sentieri dell’esistenza, dissestati dal peccato e dall’indifferenza, si orientino nuovamente verso l’Orizzonte. Il profeta, come è evidente nella radicalità ed essenzialità dello stile di Giovanni, non parla solo con le parole, ma prima di tutto con la vita, che è modellata dal messaggio. L’autore sacro ci dice che tanti accorrevano presso di lui per venire battezzati e pentirsi, segno che la coerenza del profeta è sempre luminosa e affascinante, generando attrazione in coloro che hanno vera fame e sete di senso. In quella folla, tuttavia, Giovanni riconosce anche il fumo dell’incoerenza e del formalismo, di coloro che si avvicinano pretenziosamente, pensando che il dirsi semplicemente appartenenti ad Abramo, senza veramente lasciarsi cambiare la vita dalla presenza di Dio, sia sufficiente. Dio ci salvi da questa brutta attitudine: quella di sentirci meritevoli di qualcosa, piuttosto che destinatari immeritevoli dei doni del Cielo! L’arrivo di Cristo non ammette sconti, è radicale ed esigente: finché siamo in questo tempo di grazia, ascoltiamo la sua Parola e gli inviti dei suoi profeti, per costruire la nostra vita su basi solide. Quando arriverà il tempo definitivo per ciascuno di noi come singoli e per l’umanità intera, tutto quello che è paglia, ossia completamente inutile, verrà distrutto. È il frumento delle opere buone, invece, che Cristo raccoglierà nel granaio del cielo per l’eternità.

Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)

Conversione

Il verbo shuv, che appunto significa «ritornare», è connesso a una radice che significa anche «rispondere» e che fa della conversione, del sempre rinnovato ritorno al Signore, la responsabilità della chiesa nel suo insieme e di ciascun singolo cristiano. La conversione non è infatti un’istanza etica, e se implica l’allontanamento dagli idoli e dalle vie di peccato che si stanno percorrendo (cfr. 1 Tessalonicesi 1,9; 1 Giovanni 5,21), essa è motivata e fondata escatologicamente e cristologicamente: è in relazione all’Evangelo di Gesù Cristo e al Regno di Dio, che in Cristo si è fatto vicinissimo, che la realtà della conversione trova tutto il suo senso. La conversione attesta la perenne giovinezza del cristianesimo: il cristiano è colui che sempre dice: «Io oggi ricomincio». Essa nasce dalla fede nella resurrezione di Cristo: nessuna caduta, nessun peccato ha l’ultima parola nella vita del cristiano, ma la fede nella resurrezione lo rende capace di credere più alla misericordia di Dio che all’evidenza della propria debolezza, e di riprendere il cammino di sequela e di fede. Gregorio di Nissa ha scritto che nella vita cristiana si va «di inizio in inizio attraverso inizi che non hanno mai fine». Sì, sempre il cristiano e la chiesa abbisognano di conversione, perché sempre devono discernere gli idoli che si presentano al loro orizzonte, e sempre devono rinnovare la lotta contro di essi per manifestare la signoria di Dio sulla realtà e sulla loro vita. In particolare, per la chiesa nel suo insieme, vivere la conversione significa riconoscere che Dio non è un proprio possesso, ma il Signore. Implica il vivere la dimensione escatologica, dell’attesa del Regno di Dio che deve venire e che la chiesa non esaurisce, ma annuncia. E annuncia con la propria testimonianza di conversione (Cf. Enzo BIANCHI, Le parole della spiritualità, Milano, Rizzoli, 1999, 67-70).

Preghiera

Suscita in noi, Signore, ancora oggi il desiderio vivo di tornare a te con una vera conversione. Riconosciamo, Padre, le molte tortuosità in cui si smarriscono il nostro cuore e la nostra volontà, quando non sono sostenuti dalla tua Parola di verità, dall’opera della tua grazia. Tu che sei il Dio fedele, rendi saldi anche noi sulle tue vie. Non vediamo, Signore, attorno a noi il lupo dimorare con l’agnello, ne il bambino porre la mano nel covo dei serpenti e, anche quando parliamo di pace e giustizia, lo facciamo spesso solo perché siamo mossi dalla convenienza o dalla paura. Gesù, germoglio di Davide, tu vieni a noi come bambino che non teme di stendere le mani tra i veleni di questa umanità: insegnaci ad accoglierci gli uni gli altri per la gloria di Dio; non sia solo la paura a farci convertire, ma l’intima convinzione che per la tua presenza Dio cammina in mezzo a noi e fa di noi il suo popolo.Vieni su di noi, Spirito Santo, con la pienezza dei tuoi doni, perché questo popolo, che ancora si accinge ad ascoltare la parola forte e austera del Battista, non riposi sulla propria presunta giustizia e abbia la forza di portare a termine il cammino intrapreso.

I domenica di Avvento/A: Concentrarsi su quello che conta

Dal vangelo secondo Matteo (Mt 24,37-44)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

Commento

Con questa  domenica entriamo nel tempo forte dell’Avvento, tempo in cui, lasciandoci guidare dalla Parola di Dio e dalla preghiera della Chiesa, loderemo, adoreremo e conosceremo meglio il Signore, per preparaci alla sua venuta. In questo ciclo A dell’anno liturgico, ci accompagnerà in modo particolare il Vangelo secondo Matteo, dal cui capitolo 24, parte del cosiddetto discorso di Gesù “sulle cose ultime” (ta eschata), è tratto il brano che stiamo meditando. Richiamando il noto episodio del diluvio di Genesi (Gen 6,5-12), Gesù invita a riflettere sulle priorità della nostra vita quotidiana. Il tempo di Avvento, come dice la parola stessa, ci parla di una venuta, quella di Cristo glorioso che tornerà nella gloria alla fine dei tempi, ma anche quella storica già avvenuta duemila anni fa nel mistero dell’Incarnazione, che ogni anno celebriamo nella liturgia natalizia, così come di quella quotidiana che accade sempre di nuovo per noi, qui ed ora. Come ci prepariamo a questo incontro? Il rischio è quello di lasciarci travolgere da questo diluvio, che è la venuta del Signore, imprevedibile e sconvolgente, senza neppure accorgercene, proprio come i contemporanei di Noè, distratti dall’orizzontalità dei loro bisogni e dei loro piaceri. In quel momento decisivo, che è il ritorno di Cristo, non conta il riconoscimento sociale o le proprie occupazioni; quello che conta è soltanto l’attitudine dello spirito: l’attenzione alla relazione che ci caratterizza, quella con il Vivente, Colui che è, che era e che viene. Dare priorità alla nostra amicizia con il Vivente ci rende vivi, svegli, attenti a quello che accade attorno a noi, disposti ad ascoltare la sua voce e i bisogni dei fratelli. Riflettendo anche sul piano semplicemente umano, quando facciamo l’esperienza della perdita di una persona cara oppure di aver sprecato un’occasione importante, ci rendiamo conto che avremmo dovuto agire diversamente e ci rendiamo conto di quanto tempo abbiamo fatto trascorrere senza senso,  non  investendolo al meglio. Questa consapevolezza ci fa ricadere nel rimpianto e nel rimorso, quando ormai non c’è più nulla da fare per cambiare le cose. Utilizziamo questo tempo dell’Avvento, dunque, per concentrarci davvero su quello che conta a livello umano e spirituale, senza rimandare, ma coltivando la nostra amicizia con Cristo e quelle relazioni che ci edificano e ci fanno veramente crescere: è questa la vigilanza, la virtù che diviene nostra guida in questo tempo di Avvento, vera parabola di tutta la nostra esistenza umana.

Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)

Avvento

Avvento significa svegliarsi dai sogni di tutti i giorni, svegliarsi alla realtà. Chi è desto vive con consapevolezza ogni momento della sua vita, è presente a se stesso, vivace, vigile. È sveglio chi non si stordisce. La frenesia intontisce. Non siamo obbligati a lasciarci travolgere dal vortice consumistico. Non dobbiamo a tutti i costi lasciarci inghiottire dalla smania di esaudire ogni desiderio. La vigilanza non è soltanto l’atteggiamento fondamentale richiesto dall’Avvento. ​Il racconto del Natale menziona i pastori che vegliavano durante la notte. E proprio perché stavano vegliando viene loro annunciata la lieta novella della nascita del Messia.  Chi è sveglio è aperto e disponibile ad accogliere il mistero che vorrebbe afferrarci (A. GRÜN, Il piccolo libro della gioia del Natale, Milano, Gribaudi, 2006, p. 20)

Attendere

Non amo attendere nelle file. Non amo attendere il mio turno. Non amo attendere il treno. Non amo attendere prima di giudicare. Non amo attendere il momento opportuno. Non amo attendere un giorno ancora. Non amo attendere perché non ho tempo e non vivo che nell’istante.  D’altronde tu lo sai bene, tutto è fatto per evitarmi l’attesa: gli  abbonamenti  ai  mezzi  di  trasporto  e  i  self-service,  le  vendite  a  credito  e  i  distributori  automatici, le foto a sviluppo istantaneo, i telex e i terminali dei computer, la televisione e i radiogiornali. Non ho bisogno di attendere le notizie: sono loro a precedermi. Ma tu Dio tu hai scelto di farti attendere il tempo di tutto un Avvento. Perché tu hai fatto dell’attesa lo spazio della conversione, il faccia a faccia con ciò che è nascosto, l’usura che non si usura. L’attesa, soltanto l’attesa, l’attesa dell’attesa, l’intimità con l’attesa che è in noi, perché solo l’attesa desta l’attenzione e solo l’attenzione è capace di amare (J. Debruynne, Ecoute, Seigneur, ma prière, Collectif, Paris, 1988).

Preghiera

Signore Gesù, che ci hai affidato la tua casa, la Chiesa e tutti i nostri fratelli,
perché ci prendiamo cura gli uni degli altri in attesa del tuo ritorno,
non lasciarci cadere le braccia
per la stanchezza e per il sonno.
«State attenti, vigilate», è il tuo comando: come chi passa la notte in campagna è attento
a tutti i rumori della notte perché possono essere forieri di qualcosa di inatteso,
così fà che noi teniamo l’occhio attento e l’orecchio teso
per scorgere dove tu sei all’opera
e dove ci chiami a collaborare con te.