Chi erano Pietro e Giuda? Due Apostoli, chiamati dal Signore a stare con lui e per mandarli a predicare (cfr. Mc 3, 14), partecipi della stessa chiamata, della stessa missione, ma prima di tutto dello stesso amore incondizionato di Gesù. Le loro vicende si intrecciano, la loro fragilità e le loro vicende di peccato emergono potentemente dalle pagine della Scrittura, specialmente nel momento drammatico della Passione di Gesù. Misurarsi con questi due profili aiuta ciascuno di noi a prendere consapevolezza e posizione di fronte al mistero di Cristo, aiutandoci a far sorgere la domanda: e io, da che parte sto? Lasciandoci guidare dalla narrazione della Passione secondo Matteo, proviamo a prendere contatto ravvicinato con questi due personaggi e a misurarci con essi. Matteo narra: “Uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai capi dei sacerdoti e disse: “Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?”. E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnarlo” (Mt 26, 14-16). Entra in scena un personaggio-chiave della vicenda: Giuda Iscariota. Cosa significa questo appellativo legato al suo nome? Esso non è di facile interpretazione, ci sono varie ipotesi: secondo alcuni deriverebbe dall’ebraico ish, “uomo di Kariot”, ad indicare semplicemente la sua provenienza geografica, sebbene tale interpretazione sia meno probabile; secondo altri si tratterebbe di una storpiatura di sikarius, anch’essa poco plausibile; secondo altri ancora, con una interpretazione più verosimile, deriverebbe dall’aramaico sheparya, vale a dire “falso”, “traditore”. Giuda è descritto da Matteo come eis ton Dodeka (uno dei dodici), chiamato dal Signore con gli altri apostoli (Mt 10,4). L’evangelista non elabora una descrizione esaustiva dei motivi profondi della sua azione di delazione contro Gesù (per una diversa ideologia messianica, per soldi o per volontà di autoaffermazione sugli altri ?). L’intento di Matteo non è, infatti, quello di esprimere un giudizio su Giuda, ma di evidenziare un pericolo che incombe sul discepolo di Gesù di ogni epoca: tradire la vocazione ricevuta, “la conoscenza e la sequela di Cristo – infatti – non sono garanzie di salvezza” (Ortensio da Spinetoli, Matteo, Cittadella editrice, Assisi 1993, p. 691). In cosa sia consistita concretamente l’azione di Giuda, non emerge chiaramente dalla trama del racconto evangelico. Leggendo fra le righe si può ipotizzare che Giuda abbia informato i capi dei sacerdoti sugli spostamenti del maestro, per facilitarne l’arresto. Dalla narrazione evangelica emerge anche un altro dato: l’attaccamento al denaro da parte di Giuda. Egli rivolgendosi ai capi chiede “cosa volete darmi?” (v. 15). Questa venalità di Giuda ha due finalità nel racconto matteano, sia quella di sottolineare la bassezza di Giuda, ormai icona del “peccatore”, traditore del suo maestro, sia il grado di umiliazione a cui è sottoposto Gesù, ridotto a merce di scambio. Gli studiosi sostengono che nel prezzo dei 30 sicli di argento, ci sia un chiaro richiamo al profeta Zaccaria (cfr. Zc 11,12), come anche al libro dell’Esodo dove si stabilisce in quella somma il valore di uno schiavo ucciso dall’incornata di un bue (cfr. Es 21,32). Un’altra scena fondamentale per capire la figura di Giuda è quella dell’ultima cena. Sulla bocca di Gesù viene posto l’annuncio solenne del
tradimento, pronunciato con maestà e autorità: “in verità in verità vi dico che uno di voi mi tradirà” (Mt 26, 21). Di fronte a Gesù che padroneggia la scena con consapevolezza, i Dodici sono “addolorati“, sia per la sorte del loro maestro, sia per la complicità di uno di loro. Ciascuno di loro lo interroga con le stesse parole: “Ben undici volte riecheggia l’appellativo Kyrios (v. 22)” (Ortensio da Spinetoli, Matteo, p. 696). E’ come la ripetizione di una confessione cristologica. Gesù incalza con l’annunzio: “il Figlio dell’uomo se ne va, come è stato scritto di lui, ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; meglio per quell’uomo se non fosse mai nato” (Mt 26, 24). Queste parole di Gesù sono indubbiamente molto forti, con esse, però, Egli non vuole condannare Giuda, ma fare il punto della situazione, volendo tendere per l’ultima volta la sua mano amorevole al traditore. Egli non denuncia, ma annuncia l’opera del Padre profetizzata dalle Scritture. Dopo le parole di Gesù interviene Giuda. Egli prende le distanze dagli undici già con il suo modo di chiedere. Le sue parole, “Rabbì, sono forse io?” (Mt 26, 25), fanno da contraltare alle confessioni di fede degli altri: egli non si rivolge a Gesù come Signore, ma come “Rabbì“, non confessa la propria colpa, ma rimane nell’ambiguità. Spostiamo per un attimo il nostro zoom su Pietro. Dopo cena, sulla strada verso il Getsemani, Gesù annuncia che i suoi discepoli si scandalizzeranno. Pietro allora prende la parola e con estrema sincerità (anche se in realtà non riuscirà a tener fede a tali parole) e dice: “Anche se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai” (Mt 26, 33). Gesù, conoscendo il suo discepolo in profondità, gli annuncia la sua prossima caduta: “In verità ti dico: questa
notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte” (Mt 26, 34). Pietro, come ci dice Matteo in 16,18 ha ricevuto da Gesù già le redini della Chiesa. Questo, tuttavia, non basta a salvarlo dalle influenze sataniche, che lo porteranno a rinnegare tre volte Gesù. Nell’Orto degli Ulivi ritorna in primo piano Giuda: “ecco Giuda” (Mt 26, 47), con una folla armata, mandato dai capi d’Israele. Il traditore si è accordato con il manipolo: avrebbero arrestato Colui che egli avrebbe salutato con il bacio, gesto d’affetto e di riverenza tipico del discepolo nei confronti del Maestro. Dopo averlo salutato, Giuda lo bacia e subito Gesù viene arrestato. Il tradimento si è ormai consumato, ma Gesù non cambia il suo atteggiamento nei riguardi di Giuda. Scrive un commentatore: “Egli è sempre un amico, un intimo e può rimanere tale nonostante il delitto che ha perpetrato […]. Non si tratta di una sfida, né di una rottura definitiva, ma di un rimprovero misto sempre a speranza” (Ortensio da Spinetoli, Matteo, p. 711). Dopo la condanna da parte del Sinedrio, Gesù rimane nel cortile. Pietro segue il Signore fino al palazzo del sommo sacerdote, ma “da lontano“. Nel preciso contesto della Passione, egli inizia ad allontanarsi fisicamente dal Maestro, a non essere coinvolto personalmente nella scena, se non come spettatore, per vedere il finale (cfr. Mt 26,58). Siamo agli antefatti del rinnegamento. Tra Gesù e Pietro si coglie immediatamente un nettissimo contrasto: mentre Gesù è perfettamente padrone della situazione, Pietro è seduto, fermo in una posizione di presenza-assenza. Vuole esserci, ma nello stesso tempo “è fuori” (Mt 26, 69). Una serva gli si avvicina e lo accusa di essere stato con Gesù, egli però nega: “non so cosa dici” (Mt 26, 70). Subito dopo c’è un’altra accusa per Pietro. Anche qui egli nega, giurando (cfr. Mt 26, 72). Gli si accostano dei presenti e lo accusano per la terza volta. Egli, in un crescendo di tensione, inizia ad imprecare e giurare dicendo: “Non conosco quell’uomo” (v.74). Il triplice rinnegamento è suggellato dal canto di un gallo: segno profetizzato da Gesù (Mt 26, 34). Scrive Barbaglio: “E’ certo che Matteo ha voluto costruire un crescendo evidente; dalla negazione semplice si passa al giuramento, per finire con l’imprecazione e lo spergiuro” (G. Barbaglio, Il Vangelo di Matteo, traduzione e commento, in G. Barbaglio- R. Fabris – B. Maggioni, I Vangeli, traduzione e commento, Cittadella editrice, Assisi 2008, p. 621). La gravità del gesto di
Pietro è accresciuta anche dal pubblico rinnegamento, che si oppone direttamente alla testimonianza cristiana. Emerge chiaramente l’intento esortativo di Matteo: egli vuole richiamare l’attenzione di ogni uomo verso questo rischio. La personalità di Pietro, però, non si esaurisce nel rinnegamento. Egli rientra in sé stesso e si ricorda (emnèste) delle parole di Gesù, “prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte” (Mt 26, 75), poi esce e piange amaramente. Questo pianto è risanatore, è frutto dell’afflizione positiva (Cfr. J. Ratzinger, Gesù di Nazareth, Rizzoli, Roma-Milano 2006, p. 111), che viene dal riconoscimento della propria colpa e diventa inizio di una più profonda conversione, di una più intensa adesione a Cristo. Scrive San Giovanni Crisostomo: “A tale scopo, quindi, Gesù permette che il corifeo degli apostoli cada: per renderlo più umile e per indurlo a un più grande amore. Ama, infatti, di più chi maggiormente è stato perdonato (cf. Lc 7, 47)” (Commento al Vangelo di Matteo, 82, 4). Mentre il dramma di Cristo si sta consumando, i riflettori si accendono per un attimo di nuovo su Giuda. Quando si rende conto che Gesù è stato condannato, si muove qualcosa dentro di lui. L’evangelista annota che Giuda è “spinto dal rimorso” (Mt 27, 3), perciò riporta i trenta denari ai sommi sacerdoti, confessando con lucidità la propria colpa: “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente” (Mt 27, 4). Commenta un autore: “L’evangelista non parla di pentimento, di conversione, ma di rimorso, che è solo la premessa per arrivarvi” (Ortensio da Spinetoli, Matteo, p. 726). Giuda prende coscienza della sua colpa e corre ai ripari. La risposta sprezzante dei capi al v. 4 non fa che aggravare la situazione spirituale dell’apostolo: egli credeva di essere un personaggio chiave nel dramma messianico, si scopre invece uno strumento d’occasione. “Forse il senso di colpa si aggrava anche scoperta della beffa di cui è stato vittima” (Ortensio da Spinetoli, Matteo, pp. 726-727). A questo punto egli è preso da una profonda rabbia, che si manifesta nel gesto di gettare le monete nel santuario (cfr. Mt 27, 5), accompagnato dalla disperazione, quell’afflizione negativa (J. Ratzinger, Gesù di Nazareth, p. 111), non aperta alla speranza, che lo porta al tragico epilogo del suicidio: “si allontanò ed andò ad impiccarsi” (Mt 27,5). Scrive Poppi: “Giuda provò orrore di sé stesso per l’infamia compiuta contro il maestro buono, tuttavia non pervenne alla vera metanoia, alla conversione del cuore. Il traditore si pentì, però non riuscì ad implorare il perdono, affidandosi alla bontà del Signore. Non aveva compreso il nucleo essenziale del Vangelo, consistente nella rivelazione della misericordia infinita di Dio, che aveva mandato il Figlio, non a chiamare i giusti, ma i peccatori (Mt 9, 13)” (A. Poppi, Sinossi e commento esegetico-spirituale dei quattro Vangeli, Edizioni Messagero Padova, Padova 2008, p. 172). Quello che scatta nel cuore di Giuda è un profondo senso di colpa, che non gli permette di tornare all’Amore misericordioso di Cristo, che avrebbe perdonato anche lui se lo avesse voluto. Egli, col suo atteggiamento di chiusura, non permette alla grazia di agire nel suo cuore. La sua non è una contrizione vera e propria, ma un rimorso derivante più da una visione egoistica di sé, che non da un riconoscimento del primato dell’amore misericordioso di
Dio nella propria esistenza. Giuda non vede via d’uscita, è ormai solo con sé stesso. Senza gratitudine e lode il dolore degenera nella depressione e nella disperazione. Si tratta di un dolore negativo, non aperto alla speranza, di quell’atteggiamento peccaminoso con il quale l’uomo cessa di sperare da Dio la propria salvezza personale, gli aiuti per conseguirla o il perdono dei propri peccati. È un aperto rifiuto della bontà di Dio, della sua giustizia e della sua misericordia. Le Scritture e la Tradizione della Chiesa definiscono questo come “Peccato o bestemmia contro lo Spirito Santo“, l’unico che non può essere perdonato in quanto implica una chiusura totale del cuore, che si indurisce irreparabilmente, portando al rifiuto totale della conversione, pur di fronte alla grazia di Cristo (cf. Mt 12,31ss; Mc 3,28; Lc 12,10; 1Gv 5, 16ss). Come ci insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica: “un tale indurimento può portare alla impenitenza finale e alla rovina eterna” (CCC, n. 1864). Il risvolto tragico della vicenda di Giuda, narrato anche in Atti degli Apostoli (cfr. At 1, 15-26), dimostra come egli non sia riuscito a vedere altra via d’uscita, se non quella di togliersi la vita. Arriva all’atto estremo di chiusura e rifiuto di sé stesso, oltre che della misericordia divina.
Dalla vicenda dei due apostoli Pietro e Giuda narrata da Matteo emerge la dinamica che interessa ogni uomo nel cammino della salvezza. Alla base di tutto si trova l’incontro con Cristo. È evidente che senza di esso, nulla di veramente nuovo e decisivo può accadere. Il cambiamento può essere pienamente registrato solo se sullo sfondo della propria vicenda personale si trova la fede. È bello riportare ancora una volta alcuni pensieri di San Giovanni Crisostomo: “Da tutto questo apprendiamo una grande verità. Apprendiamo che il fervore dell’uomo non è sufficiente per operare il bene, se esso non è sostenuto dalla grazia dall’alto, e che, viceversa, questo aiuto del cielo non giova a nulla se manca la buona volontà. Giuda e Pietro dimostrano, ambedue, questa verità. Giuda, pur avendo ricevuto tante grazie, non ne ha tratto alcun vantaggio, perché non ha voluto e non ha corrisposto personalmente all’aiuto divino; Pietro, al contrario, pur essendo pieno di fervore, è caduto perché gli è venuto meno l’aiuto del cielo. La virtù infatti è fondata su questa duplice base. Ecco perché vi scongiuro di non dormire, gettando tutta la responsabilità su Dio; e se, al contrario, lavorate con ardore, vi prego di non credere che tutto sia effetto delle vostre fatiche. Dio non vuole che siamo supini e indolenti: per questo egli non opera tutto; d’altra parte non vuole che noi siamo superbi: perciò non fa dipendere tutto da noi. Di queste due cose egli toglie ciò che può nuocerci e lascia ciò che ci torna utile” (Commento al Vangelo di Matteo, 82, 4). In conclusione, dalla lezione evangelica e dall’esperienza di questi due Apostoli, scopriamo che la fede in Cristo offre la possibilità di dire in qualunque circostanza: “ora ricomincio da capo“, perché il perdono di Dio è offerto sempre ad ogni uomo. Solo questa certezza evita di ritrovarsi soli con sé stessi, divorati dalla potenza distruttiva del rimorso. Il perdono di Dio, però, non va mai letto come un non tener conto delle scelte sbagliate della nostra libertà, con una sorta di dissimulazione. Dio “prende tremendamente sul serio le nostre scelte sbagliate, e ne assume il peso fino in fondo. L’assunzione di tutte le scelte sbagliate dell’uomo è la Croce di Cristo. […] Esiste un limite contro il quale si infrange la potenza del male: il perdono e la misericordia di Dio” (C. Caffarra, Non date al peccato l’ultima parola, in «Avvenire» del 17.11.2010, p. 31).