La generatività della compassione
di don Antonio Donadio
Non so se capita anche a voi, in alcuni momenti, di sentire il bisogno di ricordare, di andare con il pensiero a ciò che è stato e che, nel bene e nel male, ha segnato la nostra storia. Non è solo nostalgia, è forse il desiderio di tornare alle sorgenti, ai primi passi del cammino umano e cristiano. Un po’ come un innamorato che, guardando negli occhi la sua sposa, ripensa al primo bacio, al primo ballo, al primo sì. A me in Quaresima capita spesso, soprattutto nei giorni che precedono le Ceneri. È lì che mi sento come uno studente all’inizio dell’anno scolastico, con lo zaino carico di libri sulle spalle (destinato a svuotarsi molto presto), e la zoppicante promessa di dare il massimo in tutte le discipline. È li che la mia mente mi riporta al tempo dell’infanzia e della prima adolescenza quando, in quei sabati pomeriggio freddi e uggiosi, le aule della “canonica” (si, la chiamavamo semplicemente “canonica”, ma vi assicuro che pur senza l’insegna “oratorio” e i corsi di tuttologia, funzionava alla grande!), si riempivano di ragazzi per l’incontro settimanale di “catechismo” (so che anche questo termine è ormai abolito dal dizionario “pedagogicopsicologicopastorale”, ma fa niente, anche perché – con tutto il rispetto – ancora non vedo alternative valide!). E ogni anno, ogni benedetto anno, la domanda delle care suore era sempre la stessa: “Quale sarà il vostro fioretto per la Quaresima?”. Dicevano proprio “fioretto”: non è un lapsus. Ma la cosa più bella era la spiegazione: “Un fiore da offrire a Gesù, tanto più bello quanto più richiede impegno e sacrificio”, roba da far impallidire la chiesa 3.0 del 2021.

Non dimenticherò mai quell’asta alla rinuncia più coraggiosa, sempre accompagnata dall’immancabile salvadanaio in purissimo cartone colorato, riciclato dal precedente ottobre missionario (perché anche allora si riciclava!), che ognuno era chiamato a riempire con i frutti del suo fioretto per poi riportarlo in parrocchia, senza nome, nel segreto, insieme al grano, che per crescere bene deve abitare il segreto di una stanza buia. Un segreto necessario e fecondo, come quello che il divin Maestro raccomanda nel brano del Vangelo che introduce l’itinerario quaresimale (Cf. Mt 6,1-6.16-18). Non è sufficiente far l’elemosina, pregare e digiunare, è necessario che tutto ciò accada nel segreto, dove solo il Padre può vedere. Qui è in gioco la fede, nient’altro. Solo chi ha fede è capace di vivere queste pratiche nel segreto, certi che il Padre buono non tarderà a concedere la ricompensa. È solo questione di fede, niente di più. Mai come in questo momento è necessario coniugare il nostro agire ad una seria e matura discrezione. È forse questo il tempo di lavorare nel segreto, far nostro lo stile del Regno che avviene sempre nel segreto, lontano dai crocicchi e dalle piazze pubbliche. È inutile nascondersi dietro un dito, troppe volte a muovere la condivisone ossessivo-compulsiva delle nostre attività, non è lo zelo divorante per l’evangelizzazione, ma una ricerca – spesso malata – di un palcoscenico virtuale, un luogo reale o digitale per affermarci. Non abbiamo bisogno di influencer, di aspiranti “Ferragnez” bramosi di vendere il proprio prodotto, abbiamo invece urgenza di uomini e donne che, nel segreto, liberi da ogni altro scopo, siano disposti a spendere la loro vita per il Vangelo. Con questo non sto facendo di tutta l’erba un fascio, né sto negando l’utilità dei social media, sto solo sottolineando che la linea che separa l’annuncio del Regno dalla propaganda elettorale è molto sottile, e che il rischio di desiderare un fragilissimo piedistallo è sempre molto alto.

Abitare fino in fondo il segreto non solo ci permette di rendere fruttuoso il nostro impegno, ma ci concede di cogliere il senso profondo di ogni cosa. È il caso dell’elemosina, che – come detto in precedenza – insieme alla preghiera e al digiuno, è parte essenziale del cammino quaresimale, e nella sua etimologia ci riporta alla misericordia e alla compassione (dal greco ἐλεημοσύνη, “avere pietà”). La pratica dell’elemosina, rispetto alla preghiera e al digiuno, richiede una discrezione ancora maggiore, poiché non deve essere nascosta solo agli altri, ma addirittura a noi stessi: “Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra” (Mt 6,3). Tale sfumatura, più che mettere l’accento sulla “quantità” del dono, evidenzia con forza il gesto del tendere la mano verso l’altro. Non è importante ciò che la mano contiene, è necessario che la mano sia tesa, disponibile al contatto. Vista in questi termini, la pratica dell’elemosina, diventa un luogo ecclesiologico, che non solo ci permette di comprendere la Chiesa, ma di generarla: è una compassione generativa. È questo il “patire con” che prima di alleviare la sofferenza dell’altro, desidera mostrare il suo “esserci” sempre e comunque. Come l’uomo della parabola, che “stalkerizzato” da un suo amico, alla fine cede e concede i tre pani destinati all’amico dell’amico (Cf. Lc 11,5). In questo caso non sono importanti i “pani”, ma la rete che si genera, l’amicizia che si crea, la prossimità che sfama. È il contagio dell’amicizia che genera la Chiesa, è l’elemosina autentica che ci insegna a condividere non solo il Pane, ma la Vita che ne deriva: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame” (Gv 6,35).
Non è un caso se la Chiesa nascente – come emerge dagli Atti – aveva un “cuor solo e un’anima sola”, metteva tutto in comune e nessuno di loro viveva nel bisogno (Cf. At 4). Accanto alla preghiera e all’ascolto delle Scritture, la gioiosa condivisione dei propri averi, costituiva un pilastro imprescindibile per rendere testimonianza alla resurrezione. Non è niente di eccezionale, è semplicemente la logica conseguenza del sentirsi realmente Chiesa, popolo di Dio nella forma del corpo di Cristo: “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui” (1Cor 12,26). L’altro mi interessa, l’altro è parte di me e io sono parte dell’altro, la qualità della maturità cristiana nasce e si edifica a partire da un “tu”, unica possibilità perché “io” esista e perché il “noi” ecclesiale maturi fino alla pienezza di Cristo (Cf. Ef 4,13).