In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
Commento
La figura del Re è sempre collegata all’esercizio di un potere su un gruppo di persone, su una nazione, su un territorio. A lui vengono attribuite delle prerogative uniche, che possono essere caratterizzate dall’assolutezza, oppure costituzionalmente mitigate dagli organismi democratici. La regalità di Cristo è di tutt’altra natura. Ce lo dice immediatamente la pagina evangelica scelta per questa solennità, tratta dai racconti della Passione nella versione di San Luca: per contemplare il senso della sua regalità dobbiamo guardare alla Croce. È certamente paradossale: come può essere il momento più drammatico e umiliante della sua esistenza, il momento della sconfitta umana, quello in cui Egli si manifesta come Re? Contemplando la Croce, in un bellissimo Inno liturgico, la Chiesa così ci fa cantare: “O albero fecondo e glorioso, ornato d’un manto regale, talamo, trono ed altare al corpo di Cristo Signore” (dalla liturgia). La croce, dunque, è il trono del gran re. È lì che si è realizzato il suo innalzamento e la sua intronizzazione, nell’atto di donare la propria vita senza riserve. Nel Vangelo di Giovanni Gesù lo ha profeticamente annunciato quando, per descrivere il suo mistero pasquale, ha usato l’immagine del seme che muore e porta frutto: “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire” (Gv 12,32-33). Ciò che per il mondo è sconfitta, nella prospettiva di Cristo è vittoria e glorificazione. La ragione di tutto questo si trova solo ed esclusivamente nell’amore. Tanti da Gesù si aspettavano e – tuttora si aspettano – un successo e una vittoria umana, politica, che abbia a che vedere con il potere dell’autoaffermazione. Chi attende questo, come coloro che a più riprese lo provocano a salvarsi, resteranno delusi. Cristo non vuole salvare se stesso, egli piuttosto vuole salvare noi, offrendosi senza riserve. L’unico ad averlo ben compreso è il buon ladrone, colui che, consapevole della propria miseria e degli errori della propria esistenza, con un atto di fede e di umiltà, “ruba” la salvezza. Ha riconosciuto nell’innocenza di Cristo l’infinita generosità dal suo dono. Il Maestro, di fronte a questo atto di fede estremo e totale, lo salva. Il Re Crocifisso dona a quell’uomo la vita eterna nell’oggi della sua vita. Così accade anche a ciascuno di noi, quando confidiamo totalmente nel suo amore, non rimandando a domani l’accoglienza del suo dono nella nostra vita. Quanto, come persone rivestite di una responsabilità sociale, familiare, ecclesiale, abbiamo da imparare dalla regalità di Cristo! Nella misura in cui superiamo la tendenza egoistica a salvare noi stessi, tanto più saremo capaci di seguire e incarnare questo potere crocifisso anche in noi.
In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».
Commento
Il nostro modo umano di guardare alla realtà che ci circonda il più delle volte non coincide con il modo di vedere di Dio. Ne è prova l’apertura della pagina del Vangelo di questa domenica, tratta dal capitolo 21 del Vangelo secondo Luca, il cosiddetto discorso di Gesù sulle cose ultime. Gli interlocutori del Maestro sono impressionati e si sentono orgogliosi della bellezza esteriore del tempio, per il suo stile architettonico e per la pomposità degli addobbi festivi. La profezia di Gesù, circa la fine del tempio materiale, suscita una domanda in loro: quando accadrà e come lo capiremo? Anche in questo caso, la curiosità umana non viene soddisfatta dal Maestro. Non serve conoscere i tempi, provare a calcolarli o stabilire date, come tanti pseudo interpreti delle Scritture tentano di fare sin dai primi secoli della Chiesa. Ciò a cui Gesù esorta attraverso questa Parola è l’ingresso in una prospettiva differente: la mia esistenza personale come si prepara al fatto che la storia ha una direzione precisa verso un fine? Sapere che siamo in questa storia orientata verso l’incontro definitivo con Lui, quando la storia sarà trasfigurata nell’eternità, vuol dire prepararsi propriamente a questa trasformazione. Il nostro percorso umano e storico in questo mondo ha dei segni che ci fanno capire la sua contraddittorietà ed incompletezza. Le guerre, le epidemie, le catastrofi naturali, le violenze e specialmente le persecuzioni verso i discepoli di Cristo, sono segni che la creazione geme e soffre e che esiste qualcuno, a cui il progetto di Dio non piace. È colui che chiamiamo il diavolo, satana. L’Apostolo, nella Lettera ai Romani, descrive in maniera illuminante la condizione della creazione e dell’umanità in questa dinamica: “Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati” (Rm 8, 22-24). Il senso cristiano della storia, in altre parole, grazie alla luce che ci viene dalla Rivelazione, ci dice che la realtà di questo mondo, per quanto piacevole o dura sia, è sempre penultima ed è l’anticamera della condizione finale dell’eternità. Il modo in cui noi, nella fede e soprattutto nella speranza, viviamo e affrontiamo questa condizione penultima, farà la differenza. Nella nostra quotidianità noi costruiamo liberamente e inesorabilmente la nostra sorte eterna. Se lasciamo al Signore lo spazio per essere il regista della nostra esistenza, non abbiamo nulla da temere. La paziente perseveranza di chi sa attendere la salvezza da Lui non ci libererà certamente dalle contraddizioni del mondo, ma certamente sarà la chiave perchè il nostro passaggio dalla condizione penultima a quella definitiva non sia traumatico, ma invece sia come il compimento di un cammino luminoso e trasparente. Tutto dipende da che parte stiamo, qui ed ora! Ci aiuta a capire questa prospettiva il grande San Paolo VI, quando nel suo Pensiero sulla morte parlando della sua appartenenza alla Chiesa, così scrive: “Non la lascio, non esco da lei, ma più e meglio, con essa mi unisco e mi confondo: la morte è un progresso nella comunione dei Santi”.
Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)
«Chi non risponde alla Parola diventa sordo» (M. Buber). L’accompagnamento non può che portare alla consapevolezza che «tutta la vita è una risposta» e, quindi, a saper scorgere le continue chiamate di Dio in ogni stagione della propria esistenza. È il faticoso passaggio dal cavallo al cammello. Un cavallo va bene per la bellezza, la forza, la velocità e la razza, per godersi una cavalcata, gareggiare e vincere un premio. Tutto molto bello. Ma poi nella vita ci sono anche i deserti, e là il migliore dei cavalli è inutile e la velocità non serve. Il cavallo si spazientirà, diverrà irrequieto, gli zoccoli affonderanno nella sabbia. Il suo respiro brucerà nel calore e la bestia s’imbizzarrirà, cadrà e morirà nelle sabbie spietate. I cavalli non sono per il deserto. I cammelli sì! Il cammello s’incamminerà e andrà avanti. Anche senza cibo, senz’acqua, senza redini, senza direzione, andrà avanti costantemente, fedelmente, sicuramente, manterrà la rotta, attraverserà il deserto, raggiungerà l’acqua e salverà se stesso e il suo cavaliere. La tenace perseveranza di mantenere fermamente la rotta nelle circostanze peggiori è una dote preziosa per sopravvivere in questo mondo. Noi tutti abbiamo bisogno di un cammello nelle nostre stalle (A. LADISA, La direzione spirituale oggi: perché?, in Centro Regionale Vocazioni (Piemonte), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 30).
Preghiera
Signore Gesù, fammi conoscere chi sei. Fa sentire al mio cuore la santità che è in te. Fà che io veda la gloria del tuo volto. Dal tuo essere e dalla tua parola, dal tuo agire e dal tuo disegno, fammi derivare la certezza che la verità e l’amore sono a mia portata per salvarmi. Tu sei la via, la verità e la vita. Tu sei il principio della nuova creazione. Dammi il coraggio di osare. Fammi consapevole del mio bisogno di conversazione, e permetti che con serietà lo compia, nella realtà della vita quotidiana. E se mi riconosco, indegno e peccatore, dammi la tua misericordia. Donami la fedeltà che persevera e la fiducia che comincia sempre, ogni volta che tutto sembra fallire.
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».
Commento
“Non omnis moriar” [Non morirò interamente] (Odi, III, 30, 6), scriveva il poeta latino Orazio, riferendosi probabilmente all’immortalità concessagli dalla sua opera poetica. Queste sue parole, tuttavia, ben si adattano ad aprire il commento al Vangelo di questa domenica, collocata verso la fine dell’anno liturgico. Questo gruppo di Sadducei, discendenti del sacerdote Sadoq, rappresentanti di una delle tante anime del giudaismo del tempo di Gesù, si avvicina a Lui portando uno degli argomenti peculiari del loro insegnamento, che li distingueva dall’altra corrente, quella dei Farisei. La posizione dei sadducei, infatti, liberale e materialista, negava totalmente la risurrezione dei morti. Citando un esempio di applicazione della ben nota legge del levirato, che imponeva legalmente al cognato (ebraico levir) di sposare la vedova del fratello defunto senza eredi per assicurargli una discendenza, essi vorrebbero persuadere Gesù circa l’assurdità degli argomenti pro resurrezione. Essi avevano in comune con tanti uomini del nostro tempo un approccio orizzontale sulla realtà: negavano, infatti, qualsiasi trascendenza dell’essere umano. La sua vita, che viene dalla polvere e ad essa deve ritornare, è limitata all’esperienza terrena, senza alcuna apertura ad una dimensione eterna e ulteriore. Il loro sguardo, in altre parole, è puramente materialistico e appiattito sulla Terra. Nulla può attendersi un uomo al di là della sua buona riuscita terrena, nella quale deve impegnarsi ad accumulare e difendere il proprio patrimonio, per poter garantire prosperità e sicurezza ai propri discendenti. Il Maestro, come al suo solito, senza entrare in dibattiti di scuola, punta dritto al cuore della questione. Alla luce della Scrittura, Egli invita a sollevare lo sguardo verso l’alto, in una dimensione verticale. La risurrezione, infatti, non è una semplice addizione o moltiplicazione della vita terrena, ma una realtà nuova e differente, garantita dalla relazione con il Dio Vivente. Nessuna delle categorie terrene, come ad esempio quella dei legami affettivi e familiari, come tra moglie e marito, si può applicare agli esseri umani che hanno già attraversato la soglia della morte e sono considerati degni della vita eterna. Si tratta di una dimensione differente e nuova, trasfigurata dallo Spirito. Ci vengono in aiuto le parole dell’Apostolo Paolo, che nell’importantissimo capitolo 15 della Lettera ai Corinzi, così si esprime: “Ogni stella infatti differisce da un’altra nello splendore. Così anche la risurrezione dei morti: è seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale” (1Cor 15, 41-44). Questa trasformazione è frutto della grazia di Dio, non dipende da alcuna volontà umana. Il Dio che è Amore non può abbandonare la sua creatura, che reca in sé la sua immagine e somiglianza, alla corruzione o al dominio del nulla. Egli non è il Dio dei morti, ma dei viventi ed è solo Lui la ragione della Risurrezione. Questa dimensione ulteriore, di eternità, che in teologia si chiama “escatologica”, è ciò per cui vale la pena scommettere sull’amore di Dio. Se non ci fosse questa promessa, resa evidente nel mistero pasquale del Figlio a cui tutti siamo chiamati a partecipare, a che servirebbero tutte le rinunce, le privazioni, le offerte quotidiane fatte con amore e per amore di Dio? In un mondo e una cultura pragmatici e scientistici, che ci portano a rimanere appiattiti sull’immanenza, il messaggio evangelico di questa domenica è un invito ad elevare lo sguardo del cuore verso la vera patria, che Dio prepara per ciascuno di noi in Cristo Gesù, quella che chiamiamo la vita eterna, la risurrezione della carne. In conclusione, ci aiutano ancora una volta le parole di Paolo: “Ora, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede” (1Cor 15, 12-14).
Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)
Abbiamo tutti il diritto di conoscere la ragione, la prospettiva, l’esito delle nostre quotidiane avventure. Su molte abbiamo risposte certe e abbastanza sicure. Su altre – su troppe – ci sentiamo sprofondati in una trama misteriosa di eventi, che ci sfuggono. Non è bello e ci riempie la vita di tristezza. Ci sentiamo derubati dei nostri diritti, costretti a consegnarli nelle mani di altri. Ci consoliamo, rassegnandoci. Ma serve solo a peggiorare le cose. Il diritto al “perché”, che è proprio il diritto al senso, posseduto e governato, non è un bene alienabile né scambiabile. […] È inutile cercare responsabilità. Ce ne possono essere tante. Alla radice sta però la vita stessa: siamo davanti alla morte per l’unica grande ragione che siamo vivi. Il mistero che la fede ci consegna, nelle parole vissute di tanti fratelli, ci restituisce una risposta: non spiega ma travolge. Penso a Gesù, ormai condannato a morte dopo un processo ingiusto. Reagisce alla schiaffo del soldato che sperava di guadagnarci in stima colpendo ingiustamente il povero Gesù, già distrutto dai primi passaggi della sua passione. Gesù mostra di essere lui il più forte, non perché chiama a sua difesa un esercito di angeli, cosa che poteva tranquillamente fare, ma perché riafferma di dare, lui stesso e solo lui, la sua vita per la vita di tutti. Diventa così signore della morte, lui, il signore della vita, perché sottrae al tiranno il diritto all’ultima parola, pronunciandola lui, forte e decisa, come gesto d’amore. Come lui, affascinati da grandi prospettive di senso o sconfitti nell’esperienza del vuoto, con le mani alzate ci sentiamo afferrati e ci ritroviamo pienamente signori della nostra vita: deboli nella nostra crisi e i più forti nella potenza di chi ci ha afferrato e restituito alla gioia di vivere e alla libertà di sperare (Riccardo TONELLI, Vivere di Fede in una stagione come è la nostra, Roma, LAS, 2013, 39-40).
Preghiera
Vieni tu da me, Signore, e allora io potrò venire da te. Portami a te e solo allora potrò seguirti. Donami il tuo cuore e solo così potrò amarti. Dammi la tua vita e allora potrò morire per te. Prendi nella tua risurrezione tutta la mia morte e sii mio, Signore, sii mio affinché io sia tua in eterno. (Silja Walter)
Dal vangelo secondo Matteo (Mt 5,1-12a) In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
Commento
In conclusione del capitolo 3 della Lettera ai cristiani di Filippi San Paolo scrive: “La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose” (Fil 3, 20-21). Immersi nelle miserie, nelle piccolezze e nelle angosce di questo mondo e della nostra vita quotidiana, spesso dimentichiamo che siamo chiamati a questa meta soprannaturale, quella compagnia senza fine in cui godremo della bellezza di Dio. La solennità di tutti i Santi che celebriamo oggi è un richiamo forte a questa dimensione senza fine a cui tutti noi, in virtù del battesimo siamo chiamati. Non è un privilegio per pochi, ma una chiamata universale, per tutti. L’autore dell’Apocalisse descrive questa realtà attraverso l’immagine di una “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua” (Ap 7,9). Non ci sono confini temporali, spaziali, geografici o esistenziali a questa sorte beata, ma come la Chiesa ci insegna attraverso la sua storia e l’elenco dei santi canonizzati, esistono tante vie di santità quante sono le vite umane. Ci sono padri e mamme di famiglia, Papi e laici, religiosi e Vescovi, giovani e anziani, sacerdoti e monaci, professionisti, operai, gente semplice e gente dotta, principi e poveri, militari e contadini, gente conosciuta dal mondo e persone nascoste e sconosciute. Tutti, però, hanno in comune una cosa: l’aver accolto e realizzato quel desiderio di vivere fino in fondo l’amicizia con Dio nella fede e nell’amore. È solo questo che permette di percorrere seriamente la via della santità. Essere santi, infatti, significa partecipare della stessa santità di Dio, “il Padre veramente Santo e fonte di ogni santità” (dalla liturgia). È sempre il Padre, infatti, che in Cristo, per primo ci rivolge l’invito ad entrare in comunione con Lui, donandoci la sua grazia abbondante, per poter percorrere la via del discepolato. Con quella povertà di spirito che è la disponibilità e semplicità del cuore di chi sa di essere piccolo e fragile, un peccatore bisognoso di conversione e salvezza, il cristiano può davvero lasciarsi plasmare dallo Spirito per essere specchio e riflesso della bellezza di Dio in questo mondo. Il santo è colui che ha lasciato agire in sé stesso lo Spirito Santo, facendosi trasfigurare ad immagine di Cristo, il povero in spirito, il sofferente, il mite, l’affamato e assetato di giustizia, il misericordioso, il puro di cuore, l’operatore di pace, il perseguitato per la giustizia. Questi amici celesti – di cui oggi celebriamo la gloria e i meriti – sono nostri modelli, guide ed intercessori, con i loro esempi, i loro insegnamenti e la loro preghiera, desiderano che anche noi possiamo condividere la loro stessa sorte. Stupende a questo fine sono le parole di San Bernardo di Chiaravalle: “Sentiamo il desiderio di coloro che ci desiderano, affrettiamoci verso coloro che ci aspettano, anticipiamo con i voti dell’anima la condizione di coloro che ci attendono. Non soltanto dobbiamo desiderare la compagnia dei santi, ma anche di possederne la felicità. Mentre dunque bramiamo di stare insieme a loro, stimoliamo nel nostro cuore l’aspirazione più intensa a condividerne la gloria” (Dal Discorso 2).
In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».
Commento
Un caso complicato, quello di Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, certamente non uno dei più ben visti da parte dei giudei, che lo consideravano il capo dei pubblici peccatori, e forse anche da parte dei primi discepoli di Gesù, a cui dovevano risuonare in mente con chiarezza quelle sue parole: “È più facile infatti per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio!” (Lc 18,25). Eppure Dio se ne ricorda! È proprio questo, infatti, il significato del nome “Zaccheo”, <<Dio si ricorda>>. Quest’uomo, nonostante la sua situazione, ha un desiderio vero, quello di vedere Gesù, sente che in Lui troverà qualcosa in più. Ci sono, tuttavia, degli ostacoli: la folla e la sua bassa statura, ma non si dà per vinto. Ascolta il suo desiderio e si mette in cammino, anzi, corre per vederlo e lo aspetta sui rami di un sicomoro. Gesù, passando, non lo ignora, ma, sapendo del suo desiderio sincero, prende iniziativa, fissa lo sguardo amoroso su di lui e lo invita a scendere. Vuole donargli l’occasione della sua vita, proprio ora, nell’oggi della salvezza. Non domani, non un giorno o in un tempo indefinito, ma proprio qui ed ora. Quell’attenzione del Maestro accelera ancora di più il desiderio di Zaccheo, che lo accoglie pieno di gioia. Leggendo queste prime battute del brano di questa domenica, ciascuno di noi dovrebbe chiedersi: che peso diamo ai nostri desideri di bene e di santità? Siamo davvero capaci di ascoltarli e di portarli avanti fino in fondo, oppure ci blocchiamo ai primi ostacoli, siano essi la folla che ci sta intorno, o la nostra bassezza, forse morale? Questi desideri santi sono più forti di tutto questo, dobbiamo solo avere il coraggio di coltivarli fino in fondo come Zaccheo. Di fronte ad essi, Gesù stesso – che attraverso il suo Spirito – li suscita in noi, realizza la sua opera salvifica in noi. Questo accade nell’oggi della nostra esistenza, non si può rinviare. Ci fa bene sempre ricordare che il passato non è più, il futuro non è ancora, ma è nel presente che ci è data l’occasione di dare senso pieno alla nostra esistenza, con Cristo, che è il Vivente, Colui che era, che è e che viene. Gesù non teme i casi difficili, nonostante tanti non ne comprendano il senso. Per tanti è solo la complicità con un peccatore. La verità della conversione, tuttavia, si coglie nella concretezza della vita. Zaccheo si alza, risorge a vita nuova, sceglie la condivisione verso i poveri e la giustizia verso coloro che aveva frodato nella sua vita precedente. La prova provata della conversione è il cambio di vita: è facile dire a parole che si ama Gesù, che si è suoi discepoli, ma perché l’incontro con la sua persona sia vero, è la vita che deve parlarne. Un incontro con Cristo e una conversione che non tocchino la concretezza della vita sono pura letteratura. Possiamo vedere gli effetti di questo passaggio nella nostra vita? Oppure, pur dicendoci cristiani e discepoli di Cristo, viviamo ancora la vita dell’uomo vecchio in noi? Un modo semplice, ma efficacissimo per capirlo, è il nostro rapporto con i beni di questo mondo: siamo veramente giusti? Siamo generosi e aperti alla condivisione? Il rapporto con la tasca non mente mai!
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Commento
Uno dei peggiori atteggiamenti di cui l’uomo è capace è la presunzione. Essa si presenta come un falso giudizio su se stessi e sugli altri, causato dall’ingigantimento del proprio ego, con l’effetto nefasto di ritenere gli altri inferiori, indegni o incapaci. Un simile atteggiamento non può certamente facilitare i rapporti umani, ma ne diventa un ostacolo spesso insormontabile, causando divisioni e solitudini. Il racconto esemplare, che il Vangelo di oggi ci dona, applica questa medesima dinamica al rapporto con Dio. Il fariseo, uomo formato nelle cose di Dio, nella sua legge e nelle osservanze rituali, scivola nella presunzione e porta quest’attitudine anche nella sua “preghiera”, finendo per rivolgersi più a se stesso che a Dio, elencando le sue qualità e disprezzando gli altri, persino puntando il dito nel tempio stesso, facendo confronti con il povero pubblicano. Lui, al contrario, uomo malvisto, considerato il peccatore per eccellenza, per via del suo mestiere, in cui spesso si poteva cedere alla disonestà, davanti a Dio ha un’attitudine completamente diversa. Ben consapevole della propria miseria, con il capo chino, segno di quell’umiltà necessaria a porsi alla presenza del Signore, si rivolge a Lui, chiedendo sinceramente perdono. La conclusione del racconto evangelico apre ad una profonda riflessione: la presunzione è un ostacolo alla salvezza; l’umiltà, invece, ne è la strada. Chiediamoci: siamo veramente alieni da questo tremendo atteggiamento della presunzione di fronte ai fratelli e di fronte a Dio? Ogni giorno, riconoscendo i doni che abbiamo ricevuto dal Signore, dovremmo sempre ricordare che siamo polvere ed in polvere ritorneremo. Non siamo migliori degli altri. Se i nostri peccati sono meno rumorosi o spettacolari di quelli di tanti altri, questo è solo perché la stessa Misericordia, che è disposta a perdonare loro, ci ha benevolmente accompagnato e preceduto, evitando che cadessimo nel baratro. Solo l’umiltà di chi si riconosce bisognoso di Dio, quindi, ci può tenere aperta la strada del cielo.
Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)
Un’ulteriore energia dello Spirito è l’abbassamento. Non uso volutamente la parola «umiltà» perché il significato abituale che attribuiamo a quest’ultima comporta una certa dose di autodeterminazione, il che in realtà è un’impressione a posteriori. L’umiltà è una condizione prima di essere un giudizio su noi stessi. È una situazione di abbassamento sulle tracce di Cristo: «Chi si umilia sarà esaltato». Un abbassamento che ha valore solo se è opera dello Spirito santo. È indubbiamente a questo punto che entra in gioco l’obbedienza religiosa, nella misura in cui tale obbedienza consiste nel rimanere sottomessi, soggetti ad altri uomini, per amore del Signore e seguendo il suo esempio (Tratto da A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 2001, pp. 9-20).
Preghiera
Il fariseo si riteneva giusto perché non uccideva. Gesù insegna ad amare i propri nemici. E noi cristiani pensiamo di essere giusti perché non abbiamo ucciso?
Il fariseo si riteneva giusto perché non commetteva adulterio. Gesù ci chiede di non guardare la donna altrui con desiderio. E noi cristiani ci riteniamo giusti quando commettiamo adulterio di fatto o di desiderio?
Il fariseo si riteneva giusto pur praticando il divorzio. Gesù insegna che chi ripudia sua moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei. E noi cristiani ci riteniamo giusti perché non abbiamo divorziato?
Il fariseo si riteneva giusto perché giurava e manteneva i giuramenti. Gesù dice di non giurare affatto. E noi cristiani ci riteniamo giusti pur giurando e giurando il falso?
Il fariseo si riteneva giusto perché digiunava e pagava le decime. Gesù dice che quando abbiamo fatto tutto, siamo servi inutili. E noi cristiani crediamo di essere giusti perché osserviamo le leggi?
La preghiera del fariseo non fu accetta a Dio perché stimò e lodò se stesso, non si ritenne peccatore, non chiese perdono a Dio, tornò a casa non giustificato.
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”. E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
Commento
La categoria più adatta per comprendere la misura del nostro rapporto con Dio è senz’altro quella dell’amicizia. Si tratta di un rapporto libero, che ci completa e rende lieto il nostro cuore. Un’amicizia si nutre e si sviluppa con lo scambio, la condivisione e la conversazione. Così, anche il nostro rapporto con Dio, se fosse privo di quel dialogo profondo e di quella conversazione costante che è la preghiera, sarebbe una semplice relazione formalistica ed istituzionale, priva dell’amore. Parlando ai suoi discepoli, Gesù li catechizza sul senso della preghiera: essa non è un dovere, come qualche volta siamo portati a pensare, ma una vera esigenza, una necessità. Come respirare, mangiare, bere, coprirsi sono necessità primarie per la vita umana, così la preghiera è necessaria per la nostra vita spirituale, ossia per un rapporto vivo con Dio. Come il respiro non può fermarsi, così anche la nostra preghiera deve essere continua, instancabile, senza interruzioni. Attraverso la parabola del giudice disonesto, senza riguardo per alcuno, Gesù punta su una caratteristica fondamentale della preghiera, quella dell’insistenza. Non ci si può stancare di dialogare con Dio, di conversare con Lui, di parlargli e ascoltarlo, di chiedere e supplicare. Se una persona così umanamente miserabile come questo giudice, di fronte all’insistenza di una persona povera, emarginata e indifesa come una vedova, finisce per farle giustizia perché non la sopporta più, quanto più Dio, che ci ama veramente, prontamente ascolterà le nostre preghiere e suppliche. Come la vedova, affamata e assetata di giustizia, non si arrende finché il giudice non compie la sua richiesta, allo stesso modo anche noi dobbiamo rimetterci totalmente nelle mani di Dio, confidando che Egli non ci abbandona mai. Quando c’è questa fiducia profonda, che è certamente segno della fede vera, non possiamo temere che Dio non ci dia quanto è necessario per la nostra salvezza. Questo ultimo aspetto è di fondamentale importanza nel nostro rapporto con la preghiera: non possiamo mai pensare che Dio debba a tutti i costi darci quello che gli chiediamo, ma dovremmo essere aperti totalmente alla sua volontà. Più che chiedergli con insistenza quello che vogliamo, in questo dialogo necessario ed insistente che è la preghiera, dovremmo chiedergli di poter volere quello che Egli ci chiede, in altre parole: “sia fatta la tua volontà”.
Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)
«Mi chiedi: perché pregare? Ti rispondo: per vivere. Si, per vivere veramente, bisogna pregare. Perché? Perché vivere è amare: una vita senza amore non è vita. È solitudine vuota, è prigione e tristezza. Vive veramente solo chi ama: e ama solo chi si sente amato, raggiunto e trasformato dall’amore. Come la pianta che non fa sbocciare il suo frutto se non è raggiunta dai raggi del sole, così il cuore umano non si schiude alla vita vera e piena se non è toccato dall’amore. Ora, l’amore nasce dall’incontro e vive dell’incontro con l’amore di Dio, il più grande e vero di tutti gli amori possibili, anzi l’amore al di là di ogni nostra definizione e di ogni nostra possibilità. Pregando, ci si lascia amare da Dio e si nasce all’amore, sempre di nuovo. Perciò, chi prega vive nel tempo e per l’eternità. E chi non prega? Chi non prega è a rischio di morire dentro, perché gli mancherà prima o poi l’aria per respirare, il calore per vivere, la luce per vedere, il nutrimento per crescere e la gioia per dare un senso alla vita. Mi dici: ma io non so pregare! Mi chiedi: come pregare? Ti rispondo: comincia a dare un po’ di tempo a Dio. All’inizio, l’importante non sarà che questo tempo sia tanto, ma che Tu glielo dia fedelmente. Fissa tu stesso un tempo da dare ogni giorno al Signore, e daglielo fedelmente, ogni giorno, quando senti di farlo e quando non lo senti» (Bruno Forte, Lettera sulla preghiera).
Preghiera
Signore, tu conosci tutto di me, quello che voglio e quello che faccio; conosci il mio bisogno di amicizia e di bontà, di speranza e di verità. Signore, ho voglia di pregare perché tu me lo hai insegnato, perché chi prega riceve la tua fortezza. Aiutami a pregare col cuore e con le parole, di giorno e di notte. da solo e con gli altri. Insegnami a pregare per dirti grazie, per crescere nella fede, per camminare nella speranza. per vivere la carità. Signore, ti ringrazio perché, quando penso a qualcosa di grande, penso a te; quando mi sento vuoto, vengo da te; quando prego, riesco a vivere come piace a te. Signore, ti prego per quelli che sono soli, per quelli che nessuno vuole. Ti prego perché tu sei sempre la forza dei deboli, la speranza dei poveri, la salvezza dei peccatori.
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
Commento
Il brano odierno descrive un episodio del cammino di Gesù verso Gerusalemme, ambientato nel suo passaggio tra la Galilea e la Samaria. Dieci lebbrosi, persone considerate in Israele come morti viventi, perché affetti da questa infezione della pelle, che ne precludeva ogni rapporto sociale, invocano Gesù perché abbia pietà di loro. Questi uomini erano considerati impuri secondo l’antica legge di Mosè, in uno stato permanente di “quarantena”, esclusi dalla comunità e ritenuti persino maledetti da Dio, perché portatori nella loro carne dei segni del loro peccato. Il Maestro non rimane sordo ed insensibile alla loro invocazione e, attenendosi alla legge, li invita a recarsi dal sacerdote di Israele perché ne attesti la purificazione e questi possano tornare a vivere in comunità. Durante il cammino, secondo la Parola del Maestro vengono sanati dal male. La forza sanante di Gesù, medico delle anime e dei corpi, Inviato del Padre, si rivela con tutta la sua potenza. Egli è il Salvatore dell’umanità: è capace di guarire l’infermità del corpo come segno di una più profonda guarigione, quella del cuore. Questa, tuttavia, non è qualcosa che si possa dare per scontato. Dei dieci guariti dalla lebbra fisica, soltanto uno torna indietro per ringraziare il Maestro, ed è per giunta anche un samaritano, l’eretico, il non israelita. Quest’uomo riconosce che Dio ha operato grandi cose in Lui ed è l’unico che torna a ringraziare. Quante volte anche noi diamo per scontate tante cose nel nostro rapporto con Dio. Abbiamo la vita, la salute, un lavoro, una famiglia, degli amici, una casa, il cibo, il vestito, dei doni, eppure quanto spesso ci dimentichiamo di ringraziare il Signore, che è la vera fonte di ogni dono. Chiediamo e chiediamo, riceviamo, eppure dimentichiamo di ringraziare, come se tutto ci fosse dovuto. Riflettiamo oggi sulla nostra vita: prima a livello umano e poi a livello di fede. Nel nostro rapporto con gli altri, siamo capaci di gratitudine? Riconosciamo quanto ci viene donato e quanto riceviamo dai nostri fratelli? Passiamo poi a livello del nostro rapporto con Dio: riconosciamo quanto riceviamo da Lui ogni giorno? Siamo capaci di gratitudine verso di Lui? Questo atteggiamento umano e spirituale della gratitudine vera è certamente un segno della nostra fede. Se crediamo che Dio ci ama, ci salva e vuole il nostro bene, allora saremo capaci di tornare per rendere grazie a Lui, Datore di ogni bene. Non a caso, infatti, pur avendo guarito i dieci lebbrosi dalla lebbra materiale, solo ad uno Gesù riconosce la salvezza, che scaturisce dalla fede. Impariamo a non dare mai nulla per scontato e per dovuto!
Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)
Gesù ha denunciato l’uomo che non ringrazia. Nel Vangelo di Luca (17,11) quando vide che dei dieci lebbrosi guariti ne era tornato uno solo a dire grazie, esclamò: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?”. “E gli altri nove dove sono?”. È pesante questa denuncia di Cristo. La percentuale di chi pensa e ringrazia sarà sempre così ridotta? L’uomo è proprio inguaribile nel suo egoismo? Abbiamo addosso la lebbra dell’ingratitudine. Il Signore aspetta il nostro ringraziamento come logica dei fatti; se abbiamo ricevuto da Dio è logico che lo riconosciamo, se lo riconosciamo è logico che ci apriamo alla gratitudine. Il Signore non ha dato ai nove lebbrosi guariti un ordine, ma si attendeva che i nove guariti dessero un ordine a se stessi. La gratitudine è la logica dell’intelligenza e del cuore retto. Chi capisce e ha il cuore retto non può fare a meno di ringraziare. Per questo non esiste un comando specifico per il ringraziamento, perché il comandamento deve partire dall’uomo; avrebbe senso la riconoscenza imposta? “E gli altri nove dove sono?”. In quei nove ci siamo tutti, perché sono innumerevoli le nostre negligenze verso la bontà di Dio. Purtroppo in quei nove siamo presenti tutti, perché tutti siamo colpevoli di ingratitudine a Dio. L’uomo non riuscirà mai a stare al passo coi doni di Dio. I benefici di Dio sono più numerosi dell’arena del mare, sono innumerevoli come le gocce d’acqua dell’oceano. Ma l’uomo deve almeno aprirsi al problema! Non lo risolverà, ma deve almeno capire che c’è! “E gli altri nove dove sono?”. La denuncia amara di Cristo deve spingermi a rappresentare gli assenti. Quando avremo capito e saremo guariti dalla lebbra dell’ingratitudine, dovremo presentarci a Dio anche per i nostri fratelli che non capiranno mai e rappresentarli: “Signore, perdonali, perché non sanno quello che fanno; io sono qui a ringraziare anche per loro, dammi la capacità di poterli rappresentare sostituendomi ad essi…” (A. GASPARINO, Maestro insegnaci a pregare, Leumann (Torino), Elle Di Ci, 1993, 45-46).
Preghiera
Insegnaci, Signore, a non amare solo noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano. Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama. Concedici la grazia di capire che in ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice e protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che pure sono tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo. Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo; e non permettere più, o Signore, che viviamo felici da soli. Facci sentire l’angoscia della miseria universale e liberaci dal nostro egoismo (Raoul Follereau)
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Commento
Cosa chiediamo al Signore nella nostra preghiera? Spesso gli presentiamo bisogni materiali, come la guarigione da una malattia fisica per noi o per qualcuno a cui vogliamo bene, qualche volta l’aiuto per realizzare un progetto o un desiderio. Tutto questo non è illegittimo, ma forse secondario. Il Vangelo di oggi, attraverso la richiesta degli apostoli, che ha il sapore di una preghiera, ci invita a chiedere al Signore qualcosa di più profondo: aumentare la nostra fede. In primo luogo si deve notare che la stessa preghiera è espressione della fede. Quindi, per pregare, è importante che un po’ di fede ci sia già. Se non credo che ho di fronte a me una persona viva a cui parlare, come posso chiedergli qualcosa? Questa fede, dall’altro canto, viene anche accresciuta e nutrita dalla preghiera: ecco perché chiedere al Signore di intervenire. La virtù della fede consiste in quello spazio fiduciale in cui riconosciamo che da soli non possiamo salvarci e abbiamo bisogno della sua grazia, del suo intervento divino per essere salvati. Questo spazio fiduciale è un dono da chiedere e coltivare costantemente nel nostro dialogo filiale con il Padre. Gesù, rispondendo alla richiesta degli apostoli, offre l’immagine del gelso, l’albero dalle radici più forti e profonde, che per un solo pizzico di fede, grande quanto un granello di senape, il più piccolo seme presente in natura, potrebbe essere facilmente sradicato. La fede, dunque, non si misura in quantità, ma in intensità e, quando è forte, può davvero trasformare il mondo, perché lascia fare a Dio: è la porta attraverso la quale Egli agisce nel mondo e nella storia. Accanto all’esigenza di una fede profonda e radicale, Gesù invita anche a coltivare un’altra virtù, che va di pari passo con essa e che ne è il presupposto: l’umiltà. Solo chi si fa piccolo, è capace di riconoscere il bisogno che ha dell’Altro. Attraverso l’immagine del padrone esigente verso il servo, Gesù non vuole certamente presentare l’immagine di Dio: Egli non agisce in modo esigente e opprimente verso i suoi servi, come i signorotti del tempo di Gesù – e forse anche dei nostri tempi! – ma vuole piuttosto sottolineare l’atteggiamento che il discepolo dovrebbe avere verso di Lui. Chi ha la grazia di aver fede e seguire il Signore deve vivere e comportarsi da servo, come Cristo stesso ha fatto, senza pretenziosità, ma soltanto donando gratuitamente la propria vita: Cristo Gesù – come ci ricorda San Paolo – “pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo” (Fil 2,6-7). Le esigenze del discepolato sono certamente alte, ma in fin dei conti vale la pena accoglierle, per rimanere nell’amicizia di un “Padrone” che ci ama.
Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)
La possibilità della fede “Aumenta la nostra fede!” A questa richiesta degli Apostoli – voce di tutti coloro che sono alla ricerca di Dio con umiltà e desiderio – Gesù risponde così: “Se avrete fede pari a un granellino di senapa, direte a questo monte: ‘spostati da qui a là’, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile”(Matteo 17,20). Credere non è anzitutto assentire a una dimostrazione chiara o a un progetto privo di incognite: non si crede a qualcosa che si possa possedere e gestire a propria sicurezza e piacimento. Credere è fidarsi di qualcuno, assentire alla chiamata dello straniero che invita, rimettere la propria vita nelle mani di un altro, perché sia lui a esserne l’unico, vero Signore. Crede chi si lascia far prigioniero dell’invisibile Dio, chi accetta di essere posseduto da lui nell’ascolto obbediente e nella docilità del più profondo di sé. Fede è resa, consegna, abbandono, accoglienza di Dio, che per primo ci cerca e si dona; non possesso, garanzia o sicurezza umane. Credere, allora, non è evitare lo scandalo, fuggire il rischio, avanzare nella serena luminosità del giorno: si crede non nonostante lo scandalo e il rischio, ma proprio sfidati da essi e in essi. “Credere significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una voce che grida: gèttati, ti prenderò fra le mie braccia!” (Søren Kierkegaard). Eppure, credere non è un atto irragionevole. È anzi proprio sull’orlo di quell’abisso che le domande inquietanti impegnano il ragionamento: se invece di braccia accoglienti ci fossero soltanto rocce laceranti? E se oltre il buio ci fosse ancora nient’altro che il buio? Credere è sopportare il peso di queste domande: non pretendere segni, ma offrire segni d’amore all’invisibile amante che chiama. (Bruno FORTE, Lettera ai ricercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 27-28)
Preghiera
Signore, fa di me ciò che vuoi! Non cerco di sapere in anticipo i tuoi disegni su di me, voglio ciò che Tu vuoi per me. Non dico: “Dovunque andrai, io ti seguirò!”, perché sono debole, ma mi dono a Te perché sia Tu a condurmi. Voglio seguirTi nell’oscurità, non Ti chiedo che la forza necessaria. O Signore, fa’ ch’io porti ogni cosa davanti a Te, e cerchi ciò che a Te piace in ogni mia decisione e la benedizione su tutte le mie azioni. Come una meridiana non indica l’ora se non con il sole, così io voglio essere orientato da Te, Tu vuoi guidarmi e servirTi di me. Così sia, Signore Gesù!
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».
Commento
È sempre impressionante rivedere come questa parabola, presente solo nel Vangelo di Luca, presenti uno sconvolgimento delle percezioni umane al cospetto di Dio. Un uomo ricco, importante, noto, sempre sul pezzo, alla moda e come si direbbe oggi “cool”, davanti a Dio è un anonimo qualunque. Un povero, invece, invisibile, oggetto di indifferenza e di disprezzo da parte di chi cavalca l’onda del mondo, ha un nome così parlante: Lazzaro, “Dio che soccorre”. Ed infatti, dove l’uomo ha mostrato tutta la propria indifferenza egoistica e distratta, servendosi dei beni terreni solo per soddisfare i propri bisogni, senza pensare agli altri, Dio è intervenuto per soccorrerlo e dargli il dono più importante: l’eterna felicità in cielo, nel seno di Abramo. Il messaggio del Vangelo è chiaro: non sono la povertà o la ricchezza in sè ad essere motivo di salvezza o di perdizione, ma l’atteggiamento del cuore di fronte ad esse. Possono esserci ricchi altruisti e generosi, che sanno condividere quello che hanno, poveri nello spirito, capaci di accorgersi dell’altro e usare dei propri beni per realizzare il bene e alleviare le sofferenze dei fratelli, oppure anche poveri, che ricchi di orgoglio, fanno della loro condizione un motivo di frustrazione, seminando odio, vivendo nell’amarezza e nell’invidia perenne verso Dio e i fratelli, spargendo disordine e violenza. La povertà, in un mondo creato da Dio per il bene di tutta l’umanità non dovrebbe esistere, perché tutto dovrebbe essere ben distribuito, senza squilibri e differenze. Le circostanze della vita, della storia e della società, attraverso il peccato e la cupidigia, hanno portato a questo squilibrio del piano voluto da Dio, per questo noi non possiamo cessare di lottare ogni giorno per l’uguaglianza e la condivisione di beni e diritti ad ogni latitudine e condizione, in quello che è nelle nostre facoltà. Lo sguardo del Vangelo pero’ va ben oltre le semplici rivendicazioni sociali e ci esorta a vigilare costantemente sul nostro atteggiamento interiore, sapendo che la vita terrena non è infinita ed eterna, ma è solo l’anticamera della vera vita, quella senza fine, dove trionferà la giustizia e l’equità. San Paolo ci esorta con parole forti: “il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che comprano, (vivano) come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!” (1Cor 7,29.30-31). Già l’antica legge, Mosè e i profeti, contengono questo insegnamento: l’amore verso Dio e il prossimo ne è il compendio. Non può esserci spazio per l’indifferenza verso chi ha bisogno, mai! Su questo si inserisce la Parola di Cristo, che reca al compimento: con la sua morte e resurrezione, Egli ci apre la vita eterna, perché in Lui, Dio è venuto a soccorrere l’umanità dall’indifferenza e dal peccato, insegnandoci la vera misericordia, che è la chiave della salvezza.
Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)
«Avere dei soldi non è un male, ma vendere il proprio cuore al denaro è una tragedia, perché, ovunque sia il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore. Se date il vostro cuore alle cose di questo mondo, presto inizierete a competere con gli altri per ottenere tutto il possibile. Incomincerete ad accendere la candela ad entrambe le estremità pur di avere sempre di più. Questa è la strada giusta se volete farvi venire la pressione alta e l’ulcera, se volete diventare ansiosi e depressi. Se scegliete di percorrere questa strada, finirete per essere tentati di ingannare, raggirare e scendere a compromessi con la vostra integrità, pur di fare del “denaro facile” o di concludere un “grande affare”» […]. La conclusione è la seguente: non posso pronunciare il mio «sì» d’amore in risposta all’invito di Dio senza pronunciare un «sì» d’amore agli altri; mi è impossibile amare Dio senza amare gli altri, così come agli altri è impossibile amare Dio senza amare me» (J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 89-90).
Preghiera
Signore, abbiamo compreso con la parola tagliente e vera, che oggi ci hai donato, che l’essenziale della vita non è confessarti a parole, ma praticare l’amore concreto per i poveri e per quelli che sono stati favoriti dalla vita. Questo significa fare la volontà del Padre tuo, vivere di te, forse anche da parte di coloro che non ti conoscono bene. Signore Gesù, tu ti identifichi con i perseguitati, con i poveri, con i deboli. Tu ci hai dato un esempio chiaro di vita, che hai racchiuso nel vangelo e specie nelle beatitudini pronunciate sul Monte. Il segno che è arrivato il tuo regno si trova nel fatto che in te l’amore concreto di Dio raggiunge i poveri, gli emarginati, non a causa dei loro meriti, bensì in ragione stessa della loro condizione d’esclusi, d’oppressi, perché tu sei dio e perché questi che sono considerati ultimi sono i primi “clienti” tuoi e del Padre tuo. Aiutaci, Signore, a capire che trascurare quest’amore concreto per i poveri, i forestieri, i prigionieri, coloro che sono nudi o che hanno fame, significa non vivere secondo la fede del regno ed escluderli dalla sua logica. Mancare all’amore è rinnegare te, perché i poveri sono tuoi fratelli e lo sono appunto a motivo della loro povertà. Facci capire fino in fondo che essi sono il luogo privilegiato della tua presenza e di quella del Padre tuo celeste.