“Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra” (1Col 3,1).

Giotto, Il giudizio uninversale, Cappella degli Scrovegni, Padova, 1306.
Facendo eco a queste parole dell’Apostolo, ci prepariamo a vivere bene due appuntamenti importanti del calendario liturgico, la Solennità di Tutti i Santi del 1 novembre e la Commemorazione dei fedeli defunti, il giorno successivo. Non è un caso che la millenaria sapienza della Chiesa abbia posto in succesione queste due celebrazioni. Essa vuole aiutare i fedeli ad elevare lo sguardo verso le realtà eterne, quelle che nel linguaggio classico vengono definite “novissimi“, dal greco “tà eschata”, ossia “le cose ultime”, quelle definitive. L’insegnamento catechistico tradizionale invitava i fedeli a mandare a memoria in modo sintetico i 4 novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso. Ascoltando queste parole forse un brivido attraversa le nostre membra, ma la luce della fede in Cristo, Crocifisso e Risorto, ci pone in una prospettiva nuova e trasfigurante, mediante la quale rileggere la vita dell’uomo.
Una delle forti tentazioni della nostra epoca è quella di esorcizzare il pensiero della sofferenza e della morte, come qualcosa di cui non parlare, o addirittura, su cui fare ironia (si pensi alla ricorrenza di Halloween di origine celtica diffusa nei paesi anglosassoni che oggi sta prendendo sempre più piede anche nella nostra cultura). Cristo, assumendo la natura umana, ha voluto prendere su di sè anche questo momento tragico, quello della morte e proprio attraverso di esso, ha operato la salvezza, realizzando la sua vittoria nella Risurrezione. É vero che Maria, gli Apostoli e gli amici di Gesù hanno pianto presso il suo sepolcro: questo ci fa comprendere come il dolore sia parte dell’esperienza umana e anche cristiana e la Chiesa, come Madre e Maestra, si fa compagna discreta e silenziosa nel momento della morte umana, rispettandone profondamente anche la connotazione di distacco doloroso. Accanto a questa delicatezza, potremmo dire “antropologica” (umana!), la Chiesa depositaria dell’annuncio del Vangelo della Risurrezione, non cessa di testimoniare la dimensione pasquale della morte del cristiano. La morte non è la fine di tutto, ma è il passaggio (“pesah“, da cui Pasqua), dalla dimensione terrena e temporale a quella celeste, eterna e definitiva. Nel cuore di un cristiano, dunque, non c’è spazio per la disperazione, ma solo per la speranza. La Parola di Dio è faro luminoso sul mistero della morte: “Certa è questa parola: se moriamo con Lui, vivremo anche con Lui” (2Tm 2,11). Nella fede noi siamo già immersi nella sua Pasqua, con la speranza, camminiamo verso il compimento e nella carità, pregustiamo già la vita eterna, che è santità.
Contemplare il Regno dei cieli, la Gerusalemme celeste, in cui i santi godono già la visione beatifica di Dio è alimento alla nostra speranza. Confortati dalla compagnia, dall’intercessione e dall’esempio di tanti testimoni luminosi di ogni tribù, lingua, popolo, nazione (cfr. Ap 5,9) anche noi, in cammino nella storia, ci sentiamo attratti verso l’eternità, la nostra Patria e “Terra promessa”. Una vita terrena, per quanto impegnata, significativa, riuscita secondo i parametri umani, che non sia aperta a questa dimensione ulteriore e definitiva, rimane sterile e insignificante. Soltanto la pienezza della carità, che è amare Dio sopra ogni cosa e i fratelli come sè stessi, nella misura piena vissuta dai Santi, è il parametro per vivere bene il presente ed aprirci all’eternità. È significativo, a questo proposito, ricordare le parole di San Giovanni della Croce: “alla sera della vita saremo giudicati sull’amore“. La bellezza dell’amore, dunque, rende attraente l’eternità e già su questa Terra rende piacevole la vita della Chiesa. Esiste un intimo rapporto tra la bellezza della Santità e la testimonianza di carità nella Chiesa, per questo papa Francesco ha sottolineato che “La santità è il volto più bello della Chiesa” (Esort. ap. Gaudete et exsultate, n. 9).