Dal Vangelo secondo Luca (Lc 24, 46-53)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
Commento

La solennità dell’Ascensione, con la quale si celebra la conclusione dell’esperienza terrena di Gesù dopo la sua morte e risurrezione, ci invita – parafrasando un’espressione dell’Apostolo Paolo – a puntare i nostri occhi verso il cielo (Col 3,1). Gesù, dopo 40 giorni dalla sua Resurrezione, conclude il ciclo delle sue apparizioni, sale al cielo e rientra definitivamente nel cuore della Trinità, portando con sè la sua umanità glorificata e redenta, trasformando il cielo nella nostra patria definitiva e sperata (cf. Fil 3,20). L’Ascensione rappresenta il compimento dell’esodo di Gesù ed è complementare al mistero dell’Incarnazione: come nel Natale il Verbo di Dio si fa carne per porre la sua dimora in mezzo a noi, così con la sua salita al cielo l’umanità redenta in Cristo, entra nell’eterna dimora del cielo. La presenza di Gesù nella Chiesa e nel mondo, dopo l’Ascensione, assume un senso nuovo: essa supera la familiarità umana e fisica, per collocarsi su un piano spirituale, in cui il legame con Lui Vivente si realizza mediante la pura fede. I discepoli – quindi anche noi – siamo testimoni di questo evento trasformante che è la sua morte e resurrezione, attingendone la forza rinnovatrice da condividere con tutte le genti, alle quali dobbiamo sentirci inviati. Il distacco fisico di Gesù dai suoi diviene un modo nuovo di essere presente per tutta l’umanità, superando le barriere del tempo e dello spazio. Presentando le sue piaghe gloriose al Padre come segno del suo amore per noi, Egli continua ad intercedere per la Chiesa e per il mondo, come il Sommo ed Eterno Sacerdote della Nuova Alleanza, Capo del corpo che è la Chiesa, mantenendo il contatto vivo con essa attraverso lo Spirito Santo. Proprio nell’atto di distaccarsi, infatti, Egli promette il Dono, che darà ai discepoli “potenza dall’alto”, per realizzare la loro missione con forza e coraggio. Nel descrivere il momento dell’ascensione, Luca presenta il gesto di Gesù, che alza le mani al cielo, proprio come segno della sua dignità sacerdotale. La benedizione di Cristo rimane sul mondo come scudo protettivo contro gli assalti del male e forza per realizzare con frutto la missione di salvezza. Nonostante Gesù sia sparito dai loro occhi, i discepoli continuano ad adorarlo, prostrandosi davanti al Signore. Da duemila anni, specialmente celebrando la liturgia, la Chiesa prosegue questa adorazione del Vivente, pur non vedendolo con gli occhi della carne, nella ferma certezza che Egli è presente ed operante e attende la sua Sposa per l’incontro definitivo con lei che ci sarà alla fine dei tempi, quando crolleranno tutte le barriere e si entrerà tutti nella dimensione definitiva della gloria.
Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)
Trasfigurati dalla speranza
Come si vede, prima componente della speranza, che io propongo, è il dialogo con Dio, da figlio a padre, da povero peccatore a colui che è misericordia infinita; esso va bene tanto nei momenti della gioia quanto in quelli del dolore; chi non lo conosce, questo dialogo, o l’avesse da tempo sospeso o tralasciato, dovrebbe riprenderlo quanto prima. Altra componente della speranza: dare più spazio alla parte migliore di noi, che bisogna saper scoprire, far riemergere dal profondo e valorizzare. La gente, oggi, mitizza volentieri e cerca modelli di vita nei divi del cinema, nei campioni dello sport, negli uomini che hanno successo. Questa gente, si direbbe, si ispira a Carlyle, che pensò agli “eroi” come a “uomini superiori”, sorti a guidare i popoli: Meglio ispirarsi al nostro Giambattista Vico, per il quale l’”eroe” è “qui sublimia appetit”, chi cioè tende a cose alte: alla perfezione morale, all’unione con Dio, a promuovere, secondo le proprie possibilità, l’avanzamento di ogni uomo e di tutto l’uomo. C’è davvero maggiore speranza in noi, quando sentiamo più cocente la nostalgia di un’autentica grandezza umana. Quella, per esempio, che Amleto attribuiva al suo defunto padre, dicendo: “Tutto in lui armonizzava così bene che la natura sem-brava alzarsi in punta di piedi e segnarlo a dito dicendo: Quegli era un uomo”. Oppure l’altra grandezza, di cui un poeta francese: “L’homme est un dieu tombé qui se souvient des cieux”, l’uomo è un dio decaduto, che ha nostalgia del cielo. Noi siamo infatti una specie di angelo che non ha più le ali, ma se ricordiamo di averle avute e se crediamo che le riavremo, veniamo trasfigurati dalla speranza
(Albino Lucani [Giovanni Paolo I], Da “Opera Omnia”, voll. VII, Padova, Messaggero, 1975-1976, 540-41).
Preghiera
Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre,
tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore. Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo:
lo sguardo li segue più a lungo che può …
Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre. Allora potremo fin d’ora gustare la viva speranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce,
sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo.