Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 5,13-16)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».
Commento

Proseguendo il suo insegnamento sul monte, nella pagina evangelica che la liturgia ci propone per questa domenica, Gesù ci consegna due immagini molto semplici e concrete, ma allo stesso tempo altamente cariche di significato, per presentare l’identità del discepolo: il sale e la luce. Partendo dalla prima, siamo invitati a riflettere sul significato del sale. Esso è un elemento naturale, che serve a dar sapore ai cibi e a conservarli. Il sale è anche utile alla terra per concimarla. Si caratterizza per un sapore forte, deciso, fermo. Perché allora Gesù usa questo paragone per definire l’identità dei suoi discepoli? Quando pensiamo al Maestro, al suo insegnamento e al suo ministero, siamo spesso mossi dal contemplarne la dolcezza, la bontà, l’amorevolezza. Lui stesso, però, nella Scrittura ci ha detto chiaramente: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada” (Mt 10,34). Il suo passaggio infatti non è stato e non è mai irrilevante e melenso, al contrario è forte e deciso, richiede una seria presa di posizione e il cambiamento serio. Anche noi, come discepoli, siamo chiamati ad essere forti e decisi, proprio come il sapore del sale. La cultura di massa oggi ci induce a vivere in modo un po’ insipiente, soprattutto quando ci rifugiamo nelle nostre comodità e nel nostro individualismo, senza lasciarci toccare da quanto ci sta attorno. Seguire Cristo ed essere suoi discepoli, invece, ci provoca sempre di nuovo ad essere fecondi, a concimare la realtà dove viviamo, a dare sapore a quanto ci circonda, uscendo dai noi stessi e non soccombendo alle tenebre dell’insipienza insignificante. La seconda immagine, poi, quella della luce, viaggia di pari passo con la prima. L’insipienza è come le tenebre, in cui non si distingue nulla, tutto sembra immobile e stagnante. La luce di Cristo, invece, svela le forme e i colori, trasfigura le linee e permette di cogliere il dinamismo della vita. I discepoli, che vivono di Lui, ricevono in sé stessi questa luce soprannaturale e divenendone partecipi attraverso la grazia, sono chiamati ad espanderla attorno a sé nella trasparenza della vita. Spesso, però, la nostra vita rimane nell’opacità del peccato e dell’incoerenza e non permette alla luce di espandersi e raggiungere gli altri. La trasparenza che permette alla luce di riverberarsi e di non rimanere intrappolata è rappresentata dalle opere buone che il discepolo realizza, come frutti maturi di carità. La bellezza di questi frutti non è mai fine a sé stessa, ma come ci dice chiaramente Gesù, è finalizzata alla gloria di Dio. Oggi, interrogandoci seriamente sul senso della nostra presenza in questo mondo, siamo invitati a domandarci: la mia testimonianza cristiana è davvero significativa, feconda e incisiva, come il sapore del sale? La mia vita è trasparenza della luce di Cristo, oppure la mia opacità ne blocca gli effetti. Infine, attraverso le opere buone che fioriscono nella mia vita – sempre come effetti della grazia!-, aiuto gli altri a rendere gloria al Padre che è nei cieli, oppure desidero che i riflettori siano continuamente puntati su me stesso? Solo pochi versetti più avanti, nel capitolo 6 di San Matteo, Gesù ci ricorda: “State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa” (Mt 6, 1-2).
Bene-dire (a cura di don Francesco Diano)
La vita interiore ci rivela i nostri limiti e le nostre negatività. È ricerca di luce ed esperienza di illuminazione, ma dove la luce splende nel fondo delle tenebre. È necessario toccare questo fondo buio di sé per conoscere la luce. Uno splendido racconto mistico musulmano (di Suhrawardî), in forma di dialogo, dice: – O sapiente, dove si trova la fonte della vita? – Nelle tenebre. Se vuoi partire alla ricerca di questa fonte, mettiti i sandali e avanza nel cammino dell’abbandono confidente, finché arriverai alla regione delle tenebre. – Da che parte si trova il sentiero per questa regione? – Da qualunque parte tu vada, se sei un vero pellegrino, tu compirai il viaggio. – Che cosa segnala la regione delle tenebre? – L’oscurità di cui si prende coscienza. Quando colui che intraprende questo cammino vede se stesso come uno che è nelle tenebre, allora comprende che egli era anche prima e fino allora nella Notte, e che la luce del Giorno non ha ancora raggiunto il suo sguardo. Eccolo, il primo passo dei veri pellegrini. Il cercatore della fonte della vita nelle tenebre passa attraverso ogni sorta di stupori e angosce. Ma se è degno di trovare questa fonte, finalmente dopo le tenebre contemplerà la luce. Allora non dovrà fuggire davanti alla luce, perché questa luce è uno splendore che, dall’alto dei cieli scende sulla fonte della luce (Cf. H. Corbin, «L’Archange empourpré: récit mystique de Sohrawardî», in Hermès 1 (1963), p. 21). È la luce della notte, delle tenebre, è la vita trovata là dove muore qualcosa, è il cammino della vita interiore, il descensus ad cor che porta a vedere le proprie tenebre, ad accettare le proprie limitatezze e a integrarle in un’esperienza di pacificazione e di unificazione. Chi vede la propria ignoranza e la conosce può entrare nella vera sapienza; chi vede i limiti della propria mortalità e temporalità può entrare nella vita; chi vede i propri limiti affettivi può entrare nell’autenticità dell’amore. Chi non accetta di vedere i propri limiti non potrà neppure iniziare a superarli o meglio, forse, a traversarli. Allora, questa illuminazione che viene dalla conoscenza delle proprie tenebre appare chiaramente come esperienza di resurrezione: se toccare il fondo del proprio cuore è esperienza di morte, la luce che si intravede è ingresso in una nuova vita. Allora si disvela l’uomo interiore (2Cor 4,16; Rm 7,22; Ef 3,16 e 1Pt 3,4 che parla dell’«uomo nascosto del cuore» là dove la Bibbia CEI traduce «l’interno del vostro cuore»), ovverosia una vita interiore che dà forza, unificazione pace, serenità, anche nel declinare delle forze e nell’andare verso la morte. Si sia credenti o no, se questa vita interiore è presente, forse si potrà fare della morte un compimento, non una fine. E si potrà dare vita alla propria vita (MANICARDI L., La vita interiore oggi. Emergenza di un tema e sue ambiguità, Magnano, Qiqajon, 1999, 25-26).
Preghiera
O Padre, non vogliamo possedere nessun vanto, nessuna gloria ma solo il nome del tuo Figlio crocifisso e risorto, un nome più prezioso e potente dell’oro e dell’argento per far alzare e camminare chi ha bisogno di speranza. È la sua Parola la luce che ci affidi perché si ravvivino i luoghi imprigionati dalle tenebre, è il vangelo la lampada che non si consuma, il sapore incorruttibile da dare all’esistenza. E sorgeranno le nostre opere buone, come un sole che non tramonta, perché acceso al tuo splendore.
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