di Rocco De Pietro

Giotto, San Giuseppe (part.), Natività, Cappella degli Scrovegni, Padova, XIII sec.
La figura di San Giuseppe, lo sposo della Beata Vergine Maria, ci viene tramandata dalla tradizione cristiana, anche iconograficamente, come quella di falegname attempato, talvolta canuto, che reca in mano il leggendario bastone fiorito. San Giuseppe, considerato l’ultimo dei patriarchi, è l’anello di congiunzione tra l’Antico e il Nuovo Testamento, che “funge da collegamento tra Gesù e la promessa fatta a Davide” (Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù). “Egli – come scrive San Bernardino da Siena – segna la conclusione dell’Antico Testamento e in lui i grandi patriarchi e profeti conseguono il frutto promesso” (Disc. 2 su San Giuseppe). Ripartendo da queste premesse, il tempo di Avvento ci è propizio per tentare di dare uno sguardo più attento alla figura di Giuseppe e riscoprirne il ruolo – decisamente centrale – che egli assume nel mistero della rivelazione del Dio fatto Uomo per la nostra salvezza. Piace riflettere su un profilo di Giuseppe diverso da quello ormai radicato nel nostro immaginario. Un artigiano, certamente più avanti negli anni rispetto alla promessa sposa Maria, ma comunque fisicamente vigoroso, tanto da affrontare i piani a lui “prescritti” dagli angeli nei sogni (cfr. Mt 1,20-25) e la fuga in Egitto (cfr. Mt 2, 13-14) e, con tutte le fatiche e le difficoltà che essi comportavano. Ma anche un falegname con una disponibilità economica sufficiente per sostenere gli spostamenti narrati dai Vangeli. Egli apparteneva alla discendenza regale di Davide, come anche Maria era cugina di Elisabetta e dunque legata a Zaccaria, sacerdote del Tempio, con una posizione sociale di rilievo. Giuseppe e Maria, non sono solo i “poveri”, quasi indigenti, che hanno fatto nascere il figlio in una mangiatoia. Essi sono due attenti conoscitori della Legge, che vogliono adempiere pienamente anche dopo la nascita di Gesù, presentandolo al Tempio (cfr. Lc 2,22-24) e recandosi poi in pellegrinaggio a Gerusalemme (cfr. Lc 2,41), secondo le prescrizioni della Legge stessa. Quindi Giuseppe, da pio ebreo, è premuroso educatore del figlio, anche sotto il profilo religioso. Appare anche fuor di dubbio che Gesù sia stato istruito da Giuseppe al lavoro nella bottega di Nazareth, osservando una antica tradizione rabbinica che obbligava il padre ad insegnare al figlio un lavoro, “perché non diventasse un ladro”.

Gerrit Van Honthorst, Il Bambino Gesù nella bottega di San Giuseppe, 1620, Hermitage, San Pietroburgo.
Giuseppe, dunque, è stato certamente un padre che ha ben custodito e governato la sua famiglia, dove Gesù cresceva “in sapienza, in età e in grazia” (Lc 2,52), “sottomesso” (Lc 2,51) ai genitori. Leggendo con attenzione quel poco che i Vangeli canonici ci dicono di lui nel mistero dell’Incarnazione, emerge che egli era “giusto”. Sull’entità di questa definizione gli studiosi dibattono. Ridurre la sua “giustizia” a semplice “commiserazione” per Maria, non avendola ripudiata, cosa che l’avrebbe destinata alla lapidazione, ma solo licenziata in segreto, appare alquanto restrittivo. La “chiamata” di Giuseppe, l’uomo “giusto” di Nazareth, come sposo di Maria, rientra nel disegno dell’Incarnazione di Dio. Egli, come ultimo dei patriarchi, riceve tramite i sogni le rivelazioni divine, in perfetta consonanza con la tradizione dei patriarchi dell’Antico Testamento che ricevevano le volontà celesti tramite messaggi intellegibili o simbolici (cfr. Gn 37, 5-10; Dn 2; 1 Re 3, 5-15). Ed a questi Patriarchi, come Abramo, Isacco, Giacobbe ed altri, è accomunato nell’obbedienza della fede. Seppure in sogno, dunque – al pari di Maria – Giuseppe riceve la sua “annunciazione” da parte dell’Angelo, con tanto di rassicurazione “non temere”, alla quale egli si affida totalmente. E se Maria pronuncia il suo fiat, Giuseppe, da uomo abituato a esprimere le sue attitudini con l’abilità esecutiva e creativa del carpentiere, fa come l’angelo gli ha ordinato, prendendo con se Maria sua sposa (cfr. Lc 1, 24-25). Agisce, in un silenzio obbediente e dinamico in piena consapevolezza di fede, accogliendo e assolvendo compiutamente il compito che Dio gli aveva affidato nel misterioso progetto di salvezza dell’umanità, superando la Legge stessa e anticipando il comandamento nuovo dell’amore, che poi ci verrà dal suo figlio Gesù. L’angelo gli si era rivolto chiamandolo “figlio di Davide” e lui da “giusto” conoscitore della Torah, sapeva che il Signore aveva giurato a Davide: “il frutto delle tue viscere io metterò sul trono!” (Sal 131). Così egli ebbe consapevolezza di rientrare nel mistero “nascosto da secoli nella mente di Dio” (cfr, Ef 3,9). Tramite Giuseppe, infatti, il Figlio di Dio entra a far parte “giuridicamente” dell’umanità e tutta la vita “privata” di Gesù è affidata alla sua custodia (cfr. Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica “Redemptoris Custos”). Fu lui, come gli aveva detto l’angelo, a dare il nome al figlio chiamandolo Gesù (cfr. Lc 2,21), in una società dove l’attribuzione del nome significava affidare un programma di vita. Distacchiamoci dalla visione puerile che abbiamo di Giuseppe e di Maria, cogliendo le giuste sfumature teologiche del loro essere “poveri”, “docili”, “umili”, “buoni”. Giuseppe ci insegna in primis ad agire per fede, come egli fu fiducioso nella promessa di Dio e vi cooperò con le opere (cfr. Rm 4,20-22); ci insegna, inoltre, ad accogliere con consapevole fiducia il disegno che Dio ha per noi anche e soprattutto quando è indesiderato, fuori dai nostri progetti o gravido di difficoltà. Agli uomini e donne della società liquida di oggi, dai valori sempre meno definiti e spesso disordinati, dove la cronaca abbonda di femminicidi, omicidi-suicidi e stragi familiari dovute a gelosie e ritorsioni, Giuseppe insegna la delicatezza del ruolo genitoriale ed educativo, che non può limitarsi al mero atto generativo e biologico, ma apre alla bellezza di una genitorialità che va oltre, alla luce del messaggio evangelico della salvezza.